Franco Fava, Corriere della Sera 27/6/2013, 27 giugno 2013
«In quella fotografia c’è tutta la mia vita. Già allora avrei potuto leggerci il mio destino. E magari l’ho fatto
«In quella fotografia c’è tutta la mia vita. Già allora avrei potuto leggerci il mio destino. E magari l’ho fatto. Non so. Quello scatto e quel record sono stati il passepartout per me e la mia famiglia. In Sudafrica, non in Italia». Marcello Fiasconaro si emoziona ancora davanti a quell’istantanea, ormai ingiallita, dello straordinario record mondiale sugli 800, realizzato il 27 giugno 1973 sulla pista dell’Arena di Milano. La foto in bianco e nero era appesa nello studio della villetta a Parktown West, quartiere di Johannesburg una volta riservato ai soli bianchi. Accanto, in bella mostra, la Lupa di Roma, dono dell’allora sindaco Ugo Vetere, quando March tornò per la prima volta dalle nostre parti per correre la maratona dell’84. Vent’anni dopo, i ladri avevano portato via tutti i cimeli. «È stato il giorno più brutto: hanno sequestrato me e mia moglie mentre rientravamo dal golf. Ora abbiamo cambiato casa, abitiamo a Sandton, un posto più tranquillo». Sono passati 40 lunghi anni da quel capolavoro: perché quel record ha segnato la sua vita? «Quando decisi di rientrare in Sudafrica, io e Sally non avevamo un soldo in tasca, ma solo debiti. Così mi sono dato da fare e ho iniziato a lavorare per l’Adidas, il marchio delle scarpette con le quali correvo. Erano anni difficili per il Sudafrica: l’apartheid, le sanzioni, i boicottaggi. Ma io ho lavorato tanto e ora sono felice: il Paese è cambiato e a fine anno vado in pensione». Ha sempre amato l’Italia: papà Gregorio era di Castelbuono, nelle Madonie, lei ha sangue siciliano: perché non è rimasto? «Avrei voluto, lo sa solo Dio quanto! Ma non c’era un futuro per me in Italia. Dopo l’atletica sono anche tornato a giocare a rugby con la Concordia Milano, ma nessuno mi ha offerto un lavoro. Non potevo vivere continuando a fare l’ospite d’onore, spesso gratis. Mi sarebbe piaciuto fare tv, ma allora c’era solo la Rai. E non era facile fare business con il mio pessimo italiano». Oggi che rapporto ha con l’Italia? «Ci verrei a vivere anche domani. Mia figlia Gianna, che fa la hostess, parla italiano meglio di me, e mio figlio Luca ha sposato una ragazza di Modena, Rossana». Oggi tornerà a calpestare la pista dell’Arena: che effetto farà? «Sarà un tuffo nel passato, a quella notte in cui ho scoperto cosa ti porta a fare la paura». Paura? La sua galoppata era possente, quasi esagerata per quei tempi... «Ma io avevo paura di Plachy: mi avevano detto che era veloce nel finale e per batterlo avrei dovuto stroncarlo sul ritmo. Ho fatto il record per paura, perché volevo tornare a casa da vincitore: a Johannesburg mi aspettava Sally, che non vedevo da un po’ perché Carlo Vittori voleva che facessi tutti i raduni con la nazionale ad Asiago». Da allora ha vissuto altre emozioni così forti? «Alla finale del Mondiale di calcio a Berlino, Italia-Francia. Ero in tribuna e rischiai di essere picchiato dai miei colleghi di lavoro: l’Adidas sponsorizzava la Francia e loro non sapevano delle mie origine italiane...». L’Arena di Milano fu anche teatro della sua prima gara in Italia. «Corsi i 400, giugno ’71, ma andai male: feci solo 46’’8. Conobbi però Trachelio e Fusi, i miei compagni della staffetta del miglio agli Europei». Si ricorda ancora quella strana maglia con cui correva: bianca, a larghe strisce verdi orizzontali, stile rugby... «Era del mio club, The Wanderers: è il mio posto preferito ancora oggi, quando non facciamo il safari al Kruger». Come arrivò in Italia? «Fu Carmelo Rado, ex azzurro del disco che in quel periodo viveva in Sudafrica, a segnalarmi alla Fidal. La prima persona della federazione che incontrai sotto la scaletta dell’aereo fu Luciano Barra, il segretario, l’unico a parlare inglese». Dal Sudafrica segregazionista al Paese Arcobaleno: il suo rientro in Sudafrica ha coinciso con la politica più repressiva di P. W. Botha, prima delle aperture di de Klerk. «I miei figli, Gianna e Luca, sono stati tra i primi a frequentare le scuole miste. Ma era difficile lavorare, anche per noi bianchi. Fino al ’74 in Sudafrica non c’era ancora la televisione...». Poi è arrivato Mandela. «Un grande uomo intelligente, senza il quale la transizione sarebbe stata un bagno di sangue. Per noi Mandela è come il Papa da voi». Oggi il suo record del mondo compie 40 anni ma quell’1’43’’7 è ancora primato italiano: cosa non va nell’atletica italiana? «È che questo sport è difficile, impegnativo. Lo praticano ovunque e per tanti è un mezzo per uscire dalla miseria. Non è solo l’Italia a soffrire, ma tutta l’Europa». Franco Fava