Marco Cicala; Piero Melati, il Venerdì 21/6/2013, 21 giugno 2013
SECOND LIFE
Chi volesse mettere in dubbio la statura calcistica del personaggio, ricordi quella finale di Champions del 1999 tra i tedeschi del Bayern Monaco e gli inglesi del Manchester United. I Red Devils erano sotto di un gol. L’arbitro, l’italiano Collina, concesse alcuni minuti di recupero. Al 91° pareggiò Sheringham, sessanta secondi dopo Solskjaer buttò dentro il gol della vittoria. Strappare la coppa più importante del mondo in extremis: il caso è rimasto negli annali del calcio. In entrambe le azioni, la palla decisiva era venuta dai calci d’angolo battuti dal piedino fatato di David Beckham.
Quando, nel maggio scorso, lo Spice Boy o Becks (due dei suoi tanti soprannomi) ha pronunciato il fatidico addio al calcio, tutti i media del mondo lo hanno celebrato. Con una nota comune. «Non era un calciatore, era un brand». Così, più o meno, si chiudeva sempre il profilo biografico. Accompagnato dalle immancabili foto a petto nudo.
Nulla di più vero. Becks è effettivamente un brand. Un uomo marchio. Un corpo ricoperto da tatuaggi, che cattura l’attenzione per spararci dritti verso un sogno. Un uomo cannone che lancia nel Pianeta i prodotti dei quali è testimone. Se si vuole trovare un corrispettivo di questo ragazzo nato a Londra nel 1975, diventato una icona del nostro tempo, occorre rivolgersi ad altri mondi, diversi dal suo: il cinema (Brad Pitt, George Clooney, Johnny Depp) o la musica (Madonna, Lady Gaga). Insomma, lo showbiz.
DavidBeckham è un caso unico. Mai nessun giocatore di calcio, da quando questo sport è stato inventato, si era trasformato in una celebrity globale. Eppure lui alza le spalle. «Non direi che questa immagine mi sia mai pesata» dice al Venerdì, nell’unica intervista italiana concessa dopo aver appeso al chiodo gli scarpini. «Sono estremamente grato per tutte le opportunità che la mia carriera nel mondo del calcio mi ha offerto. Nella mia posizione ho goduto di molti vantaggi, e soprattutto ho potuto diventare un ambasciatore per le cause che mi stanno davvero a cuore. Per esempio, l’Unicef».
Se un uomo diventa un brand, la sua biografia è fatta anche di dati. Ma non è facile districarsi tra le cifre di mister David. Quattro figli, sposato con l’ex Spice Girl Victoria Adams, secondo stime del 2012 pubblicate dal Sunday Times il patrimonio di famiglia si aggirerebbe intorno ai 190 milioni di sterline. Dal calcio vengono i 35 milioni dell’ultimo reddito dichiarato, 728 partite in venti anni di carriera, 129 gol segnati con le maglie di Manchester United, Preston, Real Madrid, L.A. Galaxy, Milan, Paris Saint-Germain, oltre 115 partite con la divisa della nazionale inglese, di cui è stato capitano 59 volte. Secondo Forbes, nel 2012 è stato il calciatore più pagato del mondo (36 milioni tra ingaggio, diritti d’immagine e sponsor, contro i 35 di Lionel Messi e i 30 di Cristiano Ronaldo). Dopo l’ultima esperienza con il Milan (2010) lo hanno accusato di essere diventato un poster. Ma nell’ultima partita giocata contro il Saint-Étienne con i colori del Paris Saint-Germain, qualcuno ha contato i palloni toccati: ben 73, compreso l’ultimo della sua carriera calcistica.
«Annunciare il mio ritiro dal calcio è stata un’esperienza molto forte a livello emotivo» ricorda oggi. «Sono orgoglioso della mia carriera e di tutto quello che ho raggiunto nello sport che amo. Ma so anche che è arrivato il momento giusto per ritirarmi, mentre sono ancora al top. Il futuro mi elettrizza, perché adesso arriva per me il momento di restituire qualcosa al calcio e incoraggiare altre persone a renderlo parte integrante delle loro vite».
Detta cosi sembra facile. Oltre che ambasciatore Unicef, il futuro immediato di Beckham porta il nome delle sue scuole calcio. Ma cosa garantisce che chi si allena con lui voglia diventare un bravo calciatore, e non piuttosto un’icona di successo?
«Come in ogni cosa, tutto dipende dall’equilibrio. Si deve vivere e assimilare il gioco, allenarsi sia a livello psicologico sia a livello fisico, così da acquisire quelle capacità che ti possono rendere imbattibile. Ma occorre anche nutrire ambizione, avere il desiderio di competere, e fare del proprio meglio, per sé e per la propria squadra. E, cosa più importante di qualsiasi altra, è indispensabile divertirsi e godersi la partita».
E lui la sua partita se l’è goduta in tutti i sensi. Con la futura moglie Victoria condivide le umili origini: vengono da famiglie operaie. Quando la maestra lo interrogò, chiedendogli cosa volesse fare da grande, David rispose: «Il calciatore». E lei: «Di lavoro, intendo». Dovette ripensarci, a quella battuta, quando nell’89 varcò il cancello della sua prima scuola giovanile e poi, nel ’91, quando firmò il primo contrattino con lo United. Da allora, militerà nel Manchester del leggendario sir Alex Ferguson fino al 2002. E con il mitico numero 7 sulle spalle vincerà tutto: sei campionati, due coppe d’Inghilterra, una Champions, una Intercontinentale, arrivando secondo nel ‘99 per il Pallone d’oro (mai vinto), fino a un clamoroso litigio con l’allenatore (Ferguson, alla faccia dell’aplomb inglese, gli tirò uno scarpino, colpendolo alla fronte, ma lui ha sempre minimizzato l’episodio) e al successivo approdo al Real Madrid, dove dovrà rinunciare al suo numero 7: lo indossava già Luís Figo, soprannominato el mercenaro, per via del contestato trasferimento dal Barcellona al Real Madrid, che divenne tra l’altro anche un caso politico.
David, al Real, prese il 23, che era stato il numero del più grande giocatore di basket di tutti i tempi, Michael Jordan. E sempre a Madrid, con il numero del «mostro» sulla maglia, Beckham diventerà nel 2006 il miglior assist man della Liga.
Del calcio ha visto tutto. Come è cambiato, che pezzi ha perso, cosa è diventato. Spiega: «Il calcio cambierà di continuo, proprio come cambia il mondo, ma gli elementi di fondo resteranno sempre gli stessi. Tutto ciò che serve per giocare a football è un pallone, un gruppo di amici, un po’ di spazio,
E quindi è possibile condividere la passione e l’energia del gioco in qualsiasi posto al mondo. È proprio questo che adoro del calcio: il fatto che unisca le persone, a prescindere dai loro background o dalle circostanze».
E il pubblico? Come hanno cambiato pelle gli stadi? Oggi la curva è diventata planetaria. «Il pubblico si è evoluto fino a fare del calcio un evento realmente globale. Adesso grazie a internet è possibile tifare per qualsiasi squadra stia giocando dall’altra parte del Pianeta, e sembra che giochi a pochi isolati di distanza. Questo significa che i fan sono ancora più coinvolti, ancora più appassionati, ancora più esperti di calcio rispetto a prima. È elettrizzante pensare che il pubblico possa aumentare ancora di più. Sono felicissimo di essere il nuovo ambasciatore globale del calcio in Cina: lì aiuterò i giovani, i bambini e gli aspiranti calciatori».
Una vita ad alta quota, tra sponsor, campagne pubblicitarie e sfilate di moda (nel 2011 avrebbe guadagnato 46 mila euro al giorno, tra Armani, Adidas, Samsung, Diet Coke). Eppure è sempre stato puntuale agli allenamenti, mai un solo scandalo o una notte di baldoria. Un calciatore modello? Beckham sorride: «Non mi definirei un calciatore modello, ma soltanto una persona che si è resa conto che, per arrivare dove intendeva arrivare, era indispensabile lavorare sodo, e impegnarsi in direzione dei propri obiettivi. Tutti sono perfettamente consapevoli del glamour che circonda lo stile di vita dei calciatori, ma difficilmente si rendono anche conto della forte determinazione che occorre per restare motivati e mantenersi al meglio delle proprie possibilità e della propria forma fisica».
Spesso si è trovato nel mirino. Polemiche per l’acquisto di un’isola negli Emirati Arabi nel 2003, veleni per la sostituzione della gigantografia di Margaret Thatcher con la sua alla National Gallery, attacchi da parte dei tabloid scandalistici (al punto che una volta, per difendere lui e Victoria, dovette intervenire il premier Tony Blair). E ancora, l’acquisto della supervilla londinese (definita Beckhingam Palace). Infine, quando mister David cambiò colore di capelli per farsi biondo, piovvero le prese in giro («ma senza malizia» ha sempre detto lui) da parte dello spogliatoio, che lo soprannominò Marilyn. Ma perché ha cambiato look tante volte? «Mi ha sempre affascinato cambiare immagine e mi sono divertito a spingere un po’ il mio look, a sperimentare stili diversi. Ma a mano a mano che invecchio, ho scoperto che mi interessa ancor più lo stile nella longevità, e saper sviluppare il look sulla base di articoli classici da uomo».
Una volta, si narra, David e Victoria acquistarono 46 borse Gucci in un solo giorno. Per lui la moda è una calamita irresistibile. Ma che cosa l’attira di più di quel magico mondo? I soldi? La celebrità? L’eleganza? E come considera le campagne pubblicitarie per i grandi stilisti: un lavoro o soltanto un divertimento? «Il mio mondo è sempre stato quello del calcio e solo in rare occasioni mi sono interessato alla moda. Però penso di averlo fatto sin dalla più tenera età, scegliendo da solo ciò che volevo indossare. Adesso, invece, mi piace il processo creativo. E spero proprio di continuare a esserne coinvolto anche in futuro».
Lo sei già, caro mister David. Un’azienda ha pensato di denudarti di nuovo. Spogliando Beckham, in qualità di testimonial di intimo per uomo. E vedrai che, anche stavolta, ci lascerai lutti in mutande.
Marco Cicala; Piero Melati