Paolo Condò, La Gazzetta dello Sport 26/6/2013, 26 giugno 2013
GHIGGIA E IL GOL DECISIVO DEL MARACANAZO
Qualche anno fa abbiamo viaggiato fino a Las Pedras, un borgo con le galline per la strada a un’ora di macchina da Montevideo, per conoscere Alcides Ghiggia. Non c’è al mondo (del calcio) uomo che l’abbia combinata più grossa, e del resto che abbia qualcosa di speciale nel dna è descritto dalla sua stessa sopravvivenza: dei 22 giocatori che il 16 luglio 1950 vissero il Maracanazo (scritto alla spagnola, la lingua dell’Uruguay, mentre i brasiliani ci mettono la c con la cediglia: ed è come dire Malvinas oppure Falkland, una scelta di campo), Ghiggia è l’ultimo ancora in vita. Alla ragguardevole età di 86 anni, è il campione del mondo più anziano. Alcides è un vecchino tenero e gentile, s’è trovato una bella frase e la ripete a ogni intervista - «Soltanto tre persone hanno zittito il Maracanà: io, Frank Sinatra e il Papa» - ma se è vero che due compagni di viaggio così inorgogliscono, il numero più difficile riuscì a lui: una cosa è il silenzio rilassato di chi ascolta un’omelia o si gode «Stranger in the night» e un’altra il silenzio impietrito di chi aveva quasi realizzato un sogno, e contro ogni previsione se lo vede sfilare da sotto il naso .
Le premesse Il paradosso è che la «finale» mondiale più famosa della storia in realtà non fu una finale, perché soltanto nel 1950 il titolo venne assegnato attraverso un girone all’italiana e non un’eliminazione diretta: ma Brasile-Uruguay era l’ultima partita in programma, e dopo aver segnato sei o sette gol alle altre rivali la formidabile Seleçao di Flavio Costa arrivò al match con due risultati a disposizione. Nessuno però dubitava del successo: il Brasile è grande 49 volte l’Uruguay, e all’epoca la sua popolazione era 55 volte superiore, in proporzione Davide era molto più simile a Golia. Ghiggia e gli altri entrarono in campo trovandosi in un’arena colma di 200 mila tifosi brasiliani, e col discorso dei loro dirigenti ancora nelle orecchie, «vi chiediamo soltanto di non farvi umiliare». Il monologo di Al Pacino non era stato ancora girato, e quindi mancava l’ispirazione.
L’epilogo Ma quell’Uruguay era composto da uomini di un’altra pasta, primo fra tutti il capitano Obdulio Varela, al quale Osvaldo Soriano avrebbe dedicato anni dopo un’indimenticabile intervista/ritratto. Una volta subìto, a inizio ripresa, il gol del brasiliano Friaca, Varela impiega tre interminabili minuti per riportare la palla a centrocampo e riprendere il gioco. E’ una strategia: vuole far sbollire l’entusiasmo dello stadio, trasformandolo in rabbia, ed è la mossa giusta perché gli avversari si smarriscono, subendo prima il pareggio di Schiaffino e poi il 2-1 di Ghiggia. La Celeste è campione del mondo. Se Leonida aveva difeso le Termopili oltre ogni logica con soli 300 spartani, Obdulio ha addirittura vinto la battaglia in undici contro 200 mila. Poi racconterà a Soriano di essersene quasi pentito, nella notte passata a percorrere una Rio sfasciata dal dolore, ma intanto la sua straordinaria personalità, la garra come dicono in Sudamerica per intendere grinta la voglia di vincere, aveva prevalso .
Oggi Da allora Brasile-Uruguay non può più essere una gara come le altre. Il sindaco di Belo Horizonte ha annunciato per oggi un giorno di festività, scuole, uffici e negozi chiusi, c’è la madre di tutte le partite e si temono incidenti perché il capoluogo del Minas Gerais è stata in queste settimane la piazza più violenta (ci sarà anche Blatter). Sull’altro fronte, Lugano ha scaldato la vigilia dicendosi curioso di vedere quante volte Neymar si getterà a terra, un modo grazioso per mettere gli uomini da una parte e i ballerini dall’altra, in perfetto stile uruguagio. Seconda voce della telecronaca Rai sarà José Altafini. Quel giorno con Ghiggia, seduti in un caffè di Las Piedras, venne fuori il ricordo dei suoi anni italiani, alla Roma e al Milan, e del suo antico compagno (e amico) brasiliano. Gli telefonammo lì, sul momento, e dopo un po’ piangevano tutti e due. E noi con loro .