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 2013  giugno 26 Mercoledì calendario

IL RESTYLING CONSOLIDA VANITY FAIR

Le vetrine della Rinascente a Milano sono da ieri tutte dedicate a celebrare i dieci anni di Vanity Fair. Con edizioni limitate, griffate Vanity, di lattine Pepsi, braccialetti Cruciani, prodotti Technogym, Citroën C3, Poltrona Frau, biciclette Rizoma, lampade Flos, borsette rosse Iconic bags.

Al settimo piano, sulla terrazza che affaccia sul Duomo, quella resa celebre dalla foto dei Beatles pre Vigorelli, ci sono deliziosi croissant, frutti di bosco, succhi di agrumi, e Luca Dini, direttore di Vanity Fair dal 2006, sprofondato su un divano, in uno dei pochi momenti di tranquillità degli ultimi tempi. «Ah, beh, in Condè Nast non si sta mai tranquilli, di certo». Vanity Fair post restyling di inizio maggio ha vendite stabili (130 mila copie in edicola, 100 mila in abbonamento), e in giugno, per la prima volta nel 2013, avrà raccolta pubblicitaria in crescita sullo stesso mese 2012. Il 4 luglio, poi, prenderà il via la web radio di Vanity, con le penne del settimanale a dare voce e a scegliere la musica dell’emittente.

Domanda. Direttore Dini, in Condè Nast la fibrillazione è iniziata improvvisa circa un anno fa. Tanti cambiamenti, tanto nervosismo. Ora è finita?

Risposta. Nell’ultimo anno ci sono stati molti cambiamenti sia in Condè Nast, sia a Vanity. E forse abbiamo proiettato all’esterno un nervosismo che, magari, non era neanche giustificato dalla situazione.

Ma in Condè Nast non si sta mai tranquilli, e questo è un bene. C’è una velocità di reazione quasi inquietante rispetto ad altri gruppi editoriali. Qui non si fanno sconti, basta un segno negativo per scatenare una immediata reazione.

D. Lei si è arrabbiato tantissimo (il 23 maggio con un post sul suo blog, ndr) contro chi riteneva il restyling di Vanity, partito a inizio maggio, un modo per alleggerire il giornale e avvicinarlo a un femminile tradizionale tutto moda, ricette e cosmesi. Perché si è tanto incavolato, e, soprattutto, con chi ce l’aveva?

R. Dieci anni fa c’erano molti che prevedevano la morte dei giornali generalisti, che dicevano che sarebbero sopravvissuti solo i periodici specializzati. Non avevano ragione, e noi siamo qua. Era un ragionamento da uomini, e per fortuna gli uomini sono pessimi lettori. Le donne, invece, vanno al di là degli steccati, accettano il mix che ti propone la vita. Mi sono molto arrabbiato col fantagiornalismo, che parlava di un alleggerimento di Vanity Fair, di una correzione di tiro con l’eliminazione di tutti gli editorialisti. Dagospia e Lettera 43, per esempio, hanno scritto che la spending review ci avrebbe trasformati in un giornale senza rubrichisti, tutto cosmesi e moda. Non era vero, non è stato così. Il restyling di maggio è stata semplicemente una evoluzione di Vanity. Nel giornale ora c’è un po’ meno politica, ma solo perché gli italiani, i lettori hanno un senso di nausea, non ne possono più. Il nostro lettorato è al 75% femminile, al 25% maschile, con uno zoccolo duro nella fascia d’età 25-40 anni.

D. Ci sono già riscontri su dati di vendita e raccolta pubblicitaria post restyling?

R. Dopo il restyling, i dati di vendita di Vanity Fair sono rimasti stabili, che di questi tempi è già un grande successo. Ovvio, non mi attendevo un boom di vendite. Siamo a 130 mila copie in edicola, più circa 100 mila copie di abbonamenti. Le diffusioni, nelle prossime settimane, saliranno, ma è normale, effetto-estate. Ci sono segnali positivi anche dal fronte pubblicitario: in giugno stiamo pareggiando il giugno 2012 sul fronte cartaceo, mentre sul web cresciamo nettamente. Tanto per dire, il primo semestre di VanityFair.it è a +20% di raccolta sullo stesso periodo 2012. Quindi, complessivamente, giugno è positivo, ed è il primo mese del 2013 che, pubblicitariamente, va meglio del corrispettivo 2012. Sarà così pure in luglio.

D. Qualche editore sta cercando anche altre strade, puntando, per esempio, sull’e-commerce. Lei che ne pensa?

R. Per chi fa media, i soldi sul digitale arriveranno, secondo noi, dalla pubblicità. Crediamo poco in modelli che invece spingono sull’e-commerce (per esempio il Corriere della Sera, ndr), perché quello è un altro mestiere. Condè Nast si occupa di contenuti e di piattaforme attraverso cui trasferirli. I prodotti, invece, li facciamo vendere ai nostri clienti.