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 2013  giugno 26 Mercoledì calendario

«Cosa mi piace dell’Islam? Certamente il concetto di responsabilità individuale, la mancanza di intermediazione tra credente e Dio

«Cosa mi piace dell’Islam? Certamente il concetto di responsabilità individuale, la mancanza di intermediazione tra credente e Dio. Nell’Islam non esiste la confessione e l’imam non è certo un sacerdote». Alessandro Paolantoni, 45enne romano, ha “rivoluzionato” la sua vita nel 2001. «Testimonio che non vi è dio se non Iddio e testimonio che Muhammad è l’inviato di Dio». Il rito è semplice: una volta verificata la sincerità dell’intenzione, si pronuncia la testimonianza di fede davanti a un uomo di credo musulmano e due testimoni. Così ci si converte: una scelta minoritaria, ma crescente, condivisa negli ultimi anni da oltre 70mila persone nel nostro Paese. A riportare sotto la luce dei riflettori la galassia dei musulmani d’Italia è il caso del 24enne genovese, Giuliano Ibrahim Delnevo, ucciso in Siria mentre combatteva a fianco dei ribelli. Delnevo si era convertito all’islam nel 2008. Un percorso di fede, il suo, sempre meno raro nel nostro Paese. «Stando alle nostre stime, i “convertiti d’Italia” superano i 70mila — fa sapere Izzedin Elzir, imam a Firenze e presidente dell’Ucoii (l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, che riunisce oltre 150 organizzazioni) — le conversioni degli italiani all’Islam sono infatti sempre più frequenti, una scelta figlia anche della crisi economica e morale di questi anni». Per Elzir, i nuovi musulmani «possono essere un prezioso ponte di dialogo tra la fede e il Paese in cui vivono». Insomma, una sorta di ambasciatori dell’Islam. Di dialogo parla anche Alessandro Paolantoni, oggi segretario dell’Ucoii (organizzazione considerata non lontana dalla Fratellanza musulmana): «Ero un cattolico tiepido — racconta — mi sono fermato alla comunione. Ad avvicinarmi all’Islam sono stati degli amici della comunità palestinese della capitale. Sia chiaro, una comunità laica e talvolta anche critica verso alcuni aspetti della fede. Incuriosito, ho cominciato un percorso solitario di studio durato due anni. Ho letto molti libri di storia e solo in un secondo momento mi sono avvicinato al Corano, nella traduzione italiana. Qualche volta sono andato a chiedere spiegazioni alla moschea ». Paolantoni si converte nel 2001 nella moschea di Centocelle a Roma, poco tempo dopo l’attentato dell’11 settembre: «Sì, è vero, sono andato in controtendenza. Il fatto è che dai miei studi mi ero accorto che nessun elemento estremistico fa veramente parte della fede musulmana». Dopo la conversione «i miei famigliari mi sono rimasti vicini e anche la maggioranza dei miei amici, solo qualcuno si è allontanato ». Grazie all’Islam, Paolantoni incontra la donna della sua vita: «Mia moglie è tunisina, l’ho sposata quando ero già convertito da tre anni, oggi abbiamo una figlia. Lei porta il velo, ma è una sua libera scelta». Paolantoni riconosce dei limiti alle comunità musulmane in Italia: «Errori di comunicazione, per esempio, dovuti al fatto che sono comunità ancora giovani e poco radicate. Ol- tretutto molti musulmani si autodefiniscono “ospiti”, come se non facessero davvero parte del Paese, un limite questo che col tempo e con una maggiore integrazione si supererà ». E cosa pensa del gesto estremo di Giuliano Ibrahim Delnevo? «Pur essendo anch’io dalla parte del popolo siriano, non condivido questa scelta. Soprattutto tra i convertiti, accade di trovare chi decida di diventare musulmano contro qualcuno, in contrapposizione per esempio all’Occidente, perché spesso si proviene da un percorso personale di disagio. Un’impostazione, questa, radicale e sbagliata. Non solo. Credo che le comunità islamiche europee stiano sottovalutando questo fenomeno, seppure minoritario, mentre dovrebbero impegnarsi ad arginarlo». «Il caso dello studente genovese non è purtroppo isolato — conferma l’imam della moschea al-Wahid di Milano e vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica), Yahya Pallavicini — tra i convertiti all’Islam c’è una minoranza crescente che ha scelto di radicalizzare la propria vita, finendo così nelle mani di falsi maestri e falsi predicatori». Insomma il richiamo del fondamentalismo estremista sarebbe più forte tra gli islamici convertiti, «perché spesso hanno cambiato vita per disgusto o in contrasto con un’esperienza precedente. Ma convertirsi contro qualcosa o qualcuno significa tradire lo stesso spirito della conversione, che deve essere solo una scelta di fede, mai di violenza». Lo stesso Pallavicini è figlio di un convertito. Non mancano però, nei confronti del giovane genovese morto in Siria, posizione diverse. «Ho fatto “professione di Islam” nel 1990, 23 anni fa — ricorda Patrizia Khadija Dal Monte (oggi dirigente Ucoii) — Provengo da una famiglia non religiosa. Ho abbracciato il cristianesimo cattolico a circa 16 anni spinta dalla ricerca di un senso profondo dell’esistenza. Poi sono diventata musulmana, a 35 anni». Nulla di strano: «C’è continuità tra le due esperienze religiose e anche col desiderio di verità che mi animava prima. L’Islam rappresenta per me la maturità della fede, quella che confida totalmente in un Dio unico, senza bisogno di raffigurazioni, che lo adora con perseveranza cinque volte al giorno, che ringrazia delle cose buone della vita e vi vede la promessa del bene che verrà». La Dal Monte oggi indossa il velo. «Lo porto — spiega — perché fa parte della tradizione islamica, la quale ha insegnamenti che coinvolgono non solo lo spirito ma anche il corpo. Penso che in ciò vi sia una grande saggezza che considera l’essere umano nella sua unità. Il ruolo della donna nell’Islam si dipana tra uguaglianza e complemen-tarietà con quello maschile, ha certo bisogno di essere liberato da tradizioni culturali che lo restringono, ma dall’altra di conservare una propria originalità rispetto alle mode attuali». Quindi la Dal Monte affronta il caso degli ultimi giorni: «La morte di Ibrahim Delnevo mi ha rattristata, sono madre di un ragazzo che ha più o meno la sua età. Cosa penso della sua scelta? Credo che al di là delle motivazioni religiose, sia stato mosso dal desiderio di aiutare un popolo oppresso. Credo si possa e si debba rispettare come tale». Hamid Abd al-Qadir Distefano, membro della Coreis, si è convertito all’Islam nel 2002. Oggi si occupa della formazione di aspiranti imam in Liguria. All’anagrafe, Hamid fa Roberto. Hamid («Colui che loda Dio») Abd al-Qadir («Servo dell’Onnipotente ») è infatti il nome che ha assunto dopo la sua conversione. «Ho avuto una formazione cattolica: battesimo, comunione, cresima e scuola dai gesuiti — racconta — poi è iniziato un periodo intenso di ricerca spirituale all’interno della Chiesa cattolica e l’incontro con alcuni maestri musulmani mi ha consentito di riconoscere il richiamo dell’ultima Rivelazione del monotesimo abramico: l’Islam ». Hamid riconosce ai musulmani convertiti il ruolo importante di possibili pontieri: «Noi siamo cittadini a tutti gli effetti della nostra Patria e quindi possiamo, anzi dobbiamo, svolgere una funzione di trasmissione della conoscenza dell’Islam, o meglio, una funzione di rappresentanza e testimonianza delle diverse istanze del sacro anche nella dimensione sociale, culturale e politica del nostro Paese». Ma, certo, «lontani da ogni estremismo».