Massimo Galli, ItaliaOggi 26/6/2013, 26 giugno 2013
PENA DI MORTE PER CHI INQUINA
La Cina prova a usare il pugno duro contro chi inquina. Non escludendo la pena di morte per tutti coloro che si macchiano di reati ambientali particolarmente gravi.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è la scoperta di alcuni episodi riguardanti l’inquinamento delle acque: nelle fabbriche della regione di Weifang, nella provincia di Shandong, sono stati realizzati pozzi clandestini per la dispersione delle acque tossiche.
Si tratta di aziende attive nella fabbricazione della plastica. Le modifiche apportate dalla Corte suprema al codice penale permetteranno di agire soprattutto su questo fronte, perché finora le imprese non dovevano rendere conto della qualità delle acque usate, che venivano espulse dai sistemi di evacuazione dichiarati.
Le condanne arriveranno fino a sette anni di carcere. Un episodio di inquinamento, che provochi un ferito grave, d’ora in poi sarà considerato un atto criminale, mentre finora doveva scapparci il morto. I casi più gravi, che implichino almeno un decesso (prima erano tre), comporteranno perfino la pena capitale. Sotto tiro non finiranno soltanto gli inquinatori, ma anche i funzionari pubblici che si occupano di vigilanza.
Saranno perseguiti anche altri comportamenti: per esempio, un atto che provochi danni superiori a 300 mila yuan (37.300 euro), che dia luogo a un’intossicazione o a un avvelenamento riguardante più di 30 persone o che sfoci nell’interruzione della fornitura di acqua per oltre dodici ore in una località cittadina.
Il giro di vite coincide con l’impegno annunciato dal nuovo presidente, Xi Jinping, nella promozione della sicurezza. Recentemente sono state arrestate 118 persone, attive soprattutto nei settori minerario e petrolchimico. Ma la strada non è in discesa, perché il sistema giudiziario è poco indipendente. Il quotidiano liberale Nanfang Dushi Bao ha scritto che le punizioni non hanno forza se non si ha il coraggio di rivelare la verità in materia di inquinamento. Il riferimento è al fatto che, nonostante l’enorme quantità di testimonianze e di fotografie, l’esistenza di pozzi clandestini a Shandong è stata a lungo smentita dall’agenzia pubblica per la protezione dell’ambiente. I malanni, insomma, non devono essere sotterrati, ma vanno affrontati a viso aperto.
L’avvocato pechinese Xiao Jun, specializzato in tematiche ambientali, ha spiegato al quotidiano francese Le Monde che le nuove disposizioni renderanno più operativa la lotta contro i criminali, ma bisogna impegnarsi per rimuovere le disfunzioni dell’apparato. L’attuale sistema richiede che siano gli stessi organismi locali di controllo a trasmettere i casi di infrazione alla polizia, ma essi evitano di farlo per non essere a loro volta accusati di carenza nell’attività di supervisione. Soltanto per gli incidenti gravi il governo di Pechino interviene in prima persona e i documenti vengono inviati al tribunale. Jun sostiene che queste pratiche dovrebbero essere seguite dal ministero della giustizia e che occorre creare organi di polizia e reparti specializzati nei reati contro l’ambiente.
Infine, raramente i giudici accettano le denunce inoltrate dalle vittime, soprattutto quando hanno a che fare con potenti aziende che godono di protezioni altolocate. Qualcosa si muove, ma è indispensabile che l’opinione pubblica continui a ribellarsi contro questa piaga e faccia pressione affinché le leggi, ora più aspre, vengano davvero applicate.