Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 26 Mercoledì calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

GIAMPAOLO VISETTI
PECHINO
— L’età dell’oro in Cina è finita? E’ la domanda che da giorni inquieta la comunità internazionale, innescando l’incertezza che scuote i mercati. Pechino, nell’ultimo decennio, è stato il motore della crescita globale e nel 2008 ha salvato l’Occidente dalla grande crisi finanziaria. Perché, all’improvviso, il primo creditore di Europa e Usa, primo investitore in euro e dollari, mostra segnali di cedimento? Le Borse reagiscono alle voci di un possibile credit crunch, ma gli analisti avvertono che la «sindrome cinese» affonda in ragioni economiche assai più solide. Il Pil di Pechino, nel primo trimestre dell’anno, ha rallentato al più 7,7%, rispetto al più 7,9 degli ultimi tre mesi 2012 e ad una crescita giunta a sfiorare l’11%.
Le ultime stime delle agenzie di rating ridimensionano il Pil cinese 2013 al più 7,4%, contro l’obiettivo del governo fissato al 7,5. Colpa della lentezza della ripresa negli Usa, della stagnazione nella zona euro, ma non di solo export si tratta. Per gli economisti le rassicurazioni della Banca del Popolo sono il segnale che la fase peggiore della stretta creditizia è finita, ma la realtà è che la nuova leadership politica ha scelto di tollerare una crescita più lenta nel nome
della sostenibilità. Solo così il premier Li Keqiang e il presidente Xi Jinping entro l’autunno potranno lanciare i nuovi piani di sviluppo, in vista di uno storico cambio di modello del sistema economico cinese. Pechino, impegnata nella più massiccia urbanizzazione della storia, è costretta a passare dalle esportazioni e dagli operai al consumo interno e alla classe media dei colletti bianchi. Le delocalizzate multinazionali occidentali emigrano in Paesi emergenti più competitivi del Sudest asiatico e la Cina deve sostituirle con uffici, servizi e ricerca
hi-tech.
Quella esplosa in queste ore è dunque la crisi di un gigantesco sistema in fase di passaggio, scosso da una serie di criticità collaterali: quella del credito ufficiale, quella delle «banche ombra», quella della produzione e dunque del lavoro, fino all’annoso spettro
di una bolla edilizia. Il dato saliente, dopo il ridimensionamento degli stimoli annunciato dalla Federal Reserve, è che Pechino segue la linea Usa e imbocca la strada opposta a quella del Giappone: sì dunque al sostegno agli istituti di credito a corto di liquidità, ma no ad un aumento del debito pubblico, tramite piani di sostegno modello 2009. «Se le banche avranno ammanchi temporanei — ha ripetuto la Banca centrale — saranno sostenute con iniezioni di liquidità per allentare la stretta del credito e stabilizzare il mercato interbancario».
Messaggio di affidabilità per gli investitori, ma pure ammissione che alcune banche hanno già ottenuto un sostegno monetario. E’ il segnale che la Cina non vive un crisi finanziaria, ma affronta una vera crisi economica. Il premier ha ripetuto ieri che le banche «devono migliorare la gestione del credito», che sono chiamate «ad arginare l’espansione del “shadow banking sector”» alimentato dalle ripetute strette creditizie, ma ha avvertito che il governo «farà di tutto per evitare un accumulo eccessivo della leva finanziaria ». Appare dunque improbabile che Pechino si lasci cadere in un credit crunch, ma il peso-record dell’indebitamento delle amministrazioni locali si sente e il modello della carriera politica direttamente proporzionale all’utile ufficiale delle regioni, comincia a mostrare la corda. Europa e Usa scontano così la conferma che l’atterraggio della Cina può rivelarsi più brusco del previsto, ma soprattutto che nel medio periodo Pechino non sarà più la locomotiva capace di trascinare tutti fuori dai guai dei propri debiti di Stato. Quanto alla liquidità, timori in calo: Pechino possiede le risorse per garantirla ed è decisa a sfruttarle, per evitare che dall’economia, la crisi contagi il potere che ancora ambisce a dominare il secolo.