Andrea Greco, la Repubblica 26/6/2013 - Stefania Tamburello, Corriere della Sera 27/6/2013, 26 giugno 2013
ROMA — C’è una bomba a orologeria nei conti pubblici, nel rigo dei titoli derivati. È una perdita potenziale da almeno otto miliardi di euro, pari a oltre il 25% degli strumenti di copertura di tassi e di cambio del debito che sono stati ristrutturati dal ministero del Tesoro nel solo 2012
ROMA — C’è una bomba a orologeria nei conti pubblici, nel rigo dei titoli derivati. È una perdita potenziale da almeno otto miliardi di euro, pari a oltre il 25% degli strumenti di copertura di tassi e di cambio del debito che sono stati ristrutturati dal ministero del Tesoro nel solo 2012. Si tratta di derivati accesi negli anni Novanta, anche per consentire anticipazioni di cassa che permisero al governo italiano di farsi trovare pronto all’appuntamento con la valuta unica. Ma oggi, e ancor più nei prossimi anni, quel fardello del passato presenta il conto. I dati sono frutto di elaborazioni svolte con criteri di mercato, che attualizzano i flussi attesi alla scadenza di quei derivati, e si basano sui numeri ufficiali — ma non pubblici — che il dicastero fornisce periodicamente alla Corte dei Conti, con cadenza semestrale. Repubblica ha potuto consultare la relazione del Tesoro sul debito pubblico, inviata ai pubblici controllori a inizio 2013. Sono 29 pagine, le ultime 10 sulla «Gestione delle passività e del rischio di tasso e di cambio», ottenuta di norma con coperture in derivati. Secondo un esperto funzionario del governo, la Corte li ha letti con preoccupazione, e ha voluto saperne di più. Così lo scorso aprile ha inviato la Guardia di Finanza in via XX settembre, con un mandato di esibizione di documenti in cerca delle confirmation letter, i contratti di stipula di quei derivati, che risalgono in buona parte agli anni Novanta. Finora, però, il Tesoro non ha mostrato quegli originali alle Fiamme Gialle. La Relazione è molto laconica nella descrizione dei contratti derivati oggetto di riassetto, una dozzina, tra febbraio e maggio 2012. Alla richiesta di maggiori dettagli, avanzata da Repubblica, il Tesoro non ha voluto commentare o illustrare i dati e le operazioni, ribadendo che si tratta di strumenti «plain vanilla» (nel gergo finanziario significa «semplici») che servono a perseguire l’interesse dello Stato, proteggendo il debito dai rischi di oscillazione dei cambi e dei tassi di interesse. In pratica, delle forme di assicurazione che possono tutelare il Tesoro da più gravi conseguenze, ma che hanno un costo nel caso in cui l’evento dal quale ci si protegge non si verifichi. Anche la Corte dei Conti, da noi interpellata, si è trincerata dietro un no comment. E analogo no comment arriva anche dalla Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi, che fu direttore generale del Tesoro tra il 1991 e il 2001, quando molti di quei derivati furono messi nero su bianco. Il documento, di cui oggi dà conto anche il Financial Times, è stato sottoposto all’analisi di provati esperti del settore, che hanno montato i numeri sui modelli matematici standard che il mercato utilizza per “prezzare” questi derivati. Sulla materia c’è scarsa trasparenza. Fonti del Tesoro la giustificano con l’opportunità di carattere strategico e commerciale. Ma chi ha letto quella relazione si è trovato davanti alla Stele di Rosetta degli swap italiani: una storia che risale agli anni Novanta, e che secondo i protagonisti delle vicende contribuì a tenere i conti del paese in dieta stretta quando si trattò di entrare in Europa con il primo treno. In attesa di maggiore trasparenza, solo dalle 10 pagine finali della Relazione si ricavano utili indicazioni. Le ristrutturazioni di contratti derivati sono una dozzina, tutte intercorse tra maggio e dicembre del 2012. Nelle carte si spiega «lo spirito» con cui si è ritenuto opportuno riscrivere quei contratti. Si collega all’esigenza delle banche specialiste in titoli di stato (una ventina dei soliti nomi: le tre grandi italiane, le principali europee e le maggiori banche d’affari anglosassoni) di ridurre il rischio Italia, che altrimenti non avrebbero potuto sostenere in asta alle nuove emissioni del Tesoro. Quasi una pistola alla tempia, che si spiega con la fase drammatica di fine 2011, quando lo spread sul Btp era sopra ai 500 punti base e la finanza pubblica domestica in ginocchio. «Nel corso del primo semestre 2012 è stata portata avanti la strategia di ristrutturazione e semplificazione del portafoglio derivati, analogamente a quanto fatto nei semestri precedenti», si legge nel documento. Eccone il motivo: «Uno degli effetti della crisi, che ha investito sempre più anche i debiti sovrani, è stata la diffusione tra le controparti bancarie di modelli di analisi e valutazione che esprimono il rischio di default di una controparte priva di garanzia (...) ciò si traduce, per la Repubblica, in un maggior costo nell’esecuzione di una nuova operazione o di ristrutturazione di una esistente». «Rispetto alla struttura del portafoglio derivati dello stato — continua la relazione — caratterizzato da scadenze lunghe e privo di collateralizzazione, quanto descritto ha prodotto l’affermarsi di una forte correlazione inversa (e perversa) tra andamento del tratto a lunga della curva swap, valore di mercato del portafoglio e livello dei Cds italiani, con potenziali effetti negativi anche sul mercato primario e secondario dei titoli di Stato». Dunque, la crisi porta le banche a presentare il conto dei vecchi derivati al Tesoro, in forma di ristrutturazioni che fanno emergere una perdita potenziale di 8.100 milioni. Un derivato è un contratto basato sul valore di mercato di uno o più beni (azioni, indici, valute, tassi d’interesse). Produce i suoi effetti alla scadenza, ma si può “prezzare” attualizzando i flussi attesi, in base all’andamento dei beni sottostanti. Quindi gli 8 miliardi saranno pagati, con ogni probabilità, nei prossimi anni, in forma di più interessi e più debito, perché dai conteggi (elaborati ai valori del 20 giugno) emerge il deprezzamento dei flussi medi previsti a oggi. Alcuni di questi flussi stanno già producendo i loro danni sui conti pubblici, perché tutte le clausole peggiorative, con finestra temporale a oggi, sono già state esercitate dalle controparti bancarie. Solo nei prossimi anni si potrà capire se il Tesoro risparmierà qualcosa sul saldo, nell’improbabile caso in cui i movimenti degli asset su cui quei derivati si basano fossero a suo totale favore. La maggior parte delle operazioni ristrutturate riguarda interest rate swap: si tratta di derivati base, per trasformare oneri sul debito di tipo variabile in fissi, e per assicurare le casse pubbliche dal rischio di rialzo dei tassi. È una pratica normale e diffusa tra gli emittenti. Ma tutti gli swap descritti sembrano rinegoziati a un prezzo «off market», cioè non con una forte perdita iniziale per l’erario. Un’anomalia probabilmente dovuta al fatto che i contratti originari, poi revisionati, erano in realtà prestiti mascherati, che il Tesoro è oggi costretto a rimborsare a caro prezzo. Questo meccanismo, già noto agli storici dell’euro, e praticato da alcuni paesi periferici per rispettare i parametri di Maastricht, aiuta forse a comprendere come è stato possibile perdere oltre un quarto del valore nozionale sui 31 miliardi di derivati ristrutturati l’anno scorso. E getta qualche ombra sulla solidità dei conti pubblici, visto che l’Italia ha derivati per 160 miliardi, di cui un centinaio proprio in interest rate swap. L’esempio forse più anomalo riguarda la revisione dello swap su un nozionale da 3 miliardi scadenza 2036, e modificato il 1° maggio 2012. Si tratta di un contratto degli anni Novanta, in cui Tesoro vendeva alla banca di turno una swaption, ossia l’opzione a entrare in un contratto swap dal 2016 al 2036. Su quei 3 miliardi di debito pubblico, in cambio di un anticipo di cassa ricevuto all’epoca, il Tesoro si impegnò a pagare un futuro tasso fisso del 4,652% su 3 miliardi di propri titoli, ricevendo in cambio l’interesse Euribor 6 mesi (attualmente, poco più di zero). Ma nel marzo 2012, con quattro anni di anticipo, lo Stato rinegozia quello swap, e lo trasforma in un nuovo scambio di tassi — sempre fisso contro variabile — su una scadenza inferiore (circa 6 anni) e su un controvalore triplicato a 9 miliardi. La Relazione qui si ferma. Le elaborazioni indicano che quel derivato “prima versione” aveva un valore negativo per lo Stato di 900 milioni al momento del riassetto. E un valore negativo di 1.350 milioni nella versione rinegoziata. Perché mai rinegoziare un contratto aggiungendo 450 milioni di perdite attese per l’Erario? Anzi, dal marzo 2012 a oggi quel derivato ha aumentato il valore negativo di 1.550 milioni, confermando gli assunti probabilistici secondo i quali solo nel 18% dei casi poteva generare, nel tempo, un beneficio per le casse pubbliche. «Molti errori sono stati fatti negli anni Novanta per far entrare l’Italia nell’euro — racconta un funzionario governativo — e oggi si trasformano in più debito, nascosto dai conti ufficiali, in un’area molto grigia che al Tesoro solo poche persone sono in grado di comprendere e maneggiare». Talmente poche, le persone, che è stata notata la nomina di Vincenzo La Via a direttore generale del Tesoro, nella primavera 2012. Dopo un lungo cursus internazionale, La Via è tornato in via XX Settembre, dove aveva già operato tra il 1994 e il 2000. E dove aveva firmato alcuni di quei contratti derivati, oggi in fase di riscrittura. RISPOSTA DEL CORRIERE DELLA SERA IL GIORNO STEFANIA TAMBURELLO ROMA — «Non c’è alcuna perdita per lo Stato«. Si tratta di «un grande malinteso». Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, definisce così la nuova polemica, che dalle pagine del Financial Times e de La Repubblica riporta alla ribalta il tema dei contratti derivati del Tesoro partendo dal caso Morgan Stanley scoppiato nel 2012. Tutto nasce dalla relazione semestrale sull’attività del debito pubblico relativa alla prima metà dello scorso anno, presentata dal Tesoro alla Corte dei conti. O meglio dai chiarimenti aggiuntivi chiesti nel marzo scorso dalla Procura della Corte dei conti, tramite la Guardia di Finanza, ai quali il Dipartimento del debito pubblico ha risposto replicando la relazione già inviata all’altra sezione dei giudici contabili. «L’indagine richiamata dalla stampa è unicamente riferibile all’operazione, già conclusa all’inizio del 2012, con la quale si è provveduto alla chiusura di un contratto sottoscritto nel 1994 con la Banca Morgan Stanley», conferma la Corte. In realtà poi la relazione semestrale ha delineato anche il resto dell’attività di quei mesi, ivi compresa la ristrutturazione di un altro gruppo di contratti derivati conclusi in periodi successivi, dopo il 2000. In ogni caso, ha precisato ancora la Corte dei conti, «le operazioni di sottoscrizione del debito pubblico, nonché quelle di natura creditizia, mobiliare e valutaria non sono soggette al controllo preventivo della Corte». Intanto la Procura di Roma ha aperto un’indagine. I fatti ci riportano dunque da una parte ai contratti sui derivati con la Morgan Stanley, risalenti agli anni 90, chiusi con addebito sui conti dello Stato di un ammontare complessivo, versato in due tranches, di circa 3 miliardi di euro. E dall’altra ai derivati ancora in essere del Tesoro. I tempi sono diversi anche se le polemiche rimbalzate sui media hanno tirato in ballo — e il sospetto che ciò sia strumentale è difficile da allontanare — l’ingresso dell’Italia nell’Euro, l’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi e l’attuale presidente della Bce, Mario Draghi, che è stato direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001. I contratti, però, tranne uno, come si è detto, sono stati conclusi o ristrutturati successivamente alla nascita dell’euro e all’uscita di Draghi dal ministero e soprattutto sono stati tutti esaminati e approvati da Eurostat. I derivati dunque, ma, innanzitutto, perché il Tesoro se ne avvale? Si tratta di contratti semplici, che il ministero ha concluso per coprirsi sui rischi di cambio o sui tassi di interesse. Hanno un costo, certo, ma a fronte di una copertura di eventi in grado di essere ben più onerosi. Sarebbe — è l’esempio molto poco sofisticato ma di immediata comprensione che circola al ministero di via xx settembre — come l’assicurazione sanitaria, che ha un costo ma si fa perché potrebbe servire e si spera di non utilizzare mai: nell’immediato è una perdita sul budget familiare ma, nel caso, rappresenta un paracadute. In termini più tecnici il Tesoro ha ieri spiegato che la filosofia di fondo dell’operatività in derivati «si basa su criteri ispirati al perseguimento dell’interesse dello Stato, mirando alla protezione dai rischi di mercato, primi fra tutti quello di cambio e di tasso di interesse. Con riferimento in particolare a quest’ultimo, l’attività in derivati è stata mirata a conseguire l’allungamento della durata complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile». Tale funzione prettamente assicurativa «è stata perseguita attraverso IRS (interest rate swap ) e opzioni su tassi di interesse (swaption ), fissando tassi a lungo termine che, al momento della sottoscrizione, risultavano storicamente ai minimi per la scadenza cui si riferivano». «Bloccare attraverso derivati un tasso fisso “a pagare” in contropartita di un tasso variabile “a ricevere” rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse, situazione peraltro sperimentata dallo Stato italiano a più riprese e con un’evidenza particolarmente significativa a seguito della grave crisi monetaria e finanziaria del 1992». Nel primo semestre dello scorso anno, tra le tensioni del mercato sul debito sovrano italiano e sugli spread , sono state fatte alcune ristrutturazioni importanti, forse anche onerose, dettate — spiegano gli esperti —, da una parte dalla necessità di distribuire i rischi sulle controparti interessate, soprattutto grandi banche anche italiane, dall’altra di alleggerire le pressioni su di esse. Il problema è se la gestione dei derivati, valutati in circa 160 miliardi cioè più o meno il 10% dello stock dei titoli di Stato quotati, rappresenti una potenziale perdita per il Tesoro. Il quotidiano britannico valuta che la perdita potenziale, stando ai valori di mercato attuali, arrivi a 8 miliardi di euro, un bel peso per i conti dello Stato. Ma si tratta di perdite potenziali che ci sarebbero nel caso che i derivati cessassero la loro efficacia. «Il caso Morgan Stanley, che si avvalse di una clausola — mai più riprodotta — di chiusura anticipata del contratto, non è ripetibile» affermano gli esperti del settore. I contratti in essere dunque andranno a scadenza e c’è da sperare che nel frattempo la situazione dei mercati e l’andamento dei rendimenti del debito sovrano italiano si distendino, eliminando il premio da pagare rappresentato dallo spread nei confronti dei titoli tedeschi. «Il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto mark to market , non è in nessun caso assimilabile a una perdita realizzata», ha precisato ancora il Tesoro nella sua nota. «Esclusivamente in presenza di specifiche clausole le controparti possono reciprocamente esigerne la corresponsione secondo le modalità previste nei contratti». Le quantificazioni «sulle possibili perdite connesse alla rinegoziazione dei contratti sui derivati non sono attribuibili in alcun modo alla Corte», hanno invece ribadito i giudici contabili. Il sospetto infine che i derivati possano aver «aiutato» artificiosamente l’Italia a mettersi in regola per entrare nell’euro. La nota del Tesoro è secca: «È assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro. Le operazioni poste in essere all’epoca sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei». I controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat «a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni». Stefania Tamburello