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 2013  giugno 25 Martedì calendario

QUEI GROTTESCHI ERRORI DA TOP TEN

Alessandro Piperno? In­ventore di una lingua neo-geroglifica, fatta di arrotolamenti ver­bali, labirinti sintattici, aggettiva­zioni compulsive («cartacea ru­videzza», «tremebonda inade­guatezza »,«superstiziosa sogge­zione», «inerte celebrità»), petu­lanti citazioni pseudo-colte (da­gli Wham! all’onnipresente Proust), una sfiancante propensione per scene di masturbazio­ne (almeno 30 performance ona­nistiche nel solo Con le peggiori intenzioni) e un’insistita ricerca, al riparo della sua sbandierata ebraicità, della political uncor­rectness che prende di mira so­prattutto gli omosessuali (12 tira­te anti-frocesche nel suo roman­zo più famoso).
Antonio Scurati? Autore di li­bri illeggibili, dalla prosa caricatissima («Doveva invece fiutare il momento singolare e fatidico, l’istante decisivo e fatale nel qua­le il concepimento del crimine era misteriosamente avvenuto nella copula tra le loro due men­ti»), azzoppati da marchiani er­rori storici (ne Il rumore sordo della battaglia si cita il tabacco in Europa prima della scoperta dell’America, si fa iniziare l’anno il 1ºgennaio quando all’epoca era il 25 marzo, s’anticipa di un seco­lo la nascita del Granducato di Toscana), infarciti di pipponi so­ciologici (retaggio della cattedra di Linguaggi dei nuovi media), appesantiti da sciatteria, banali­tà, luoghi comuni narrativi.
E siamo solo agli scrittori laure­ati, (pluri)premiati dal mercato e dalla critica, la punta di dia­mante della narrativa italiana contemporanea. Immaginia­moci gli altri. Ma quale è lo stato di salute del romanzo, oggi? Se lo è chiesto lo scrittore Pippo Rus­so nel ferocissimo pamphlet L’importo della ferita e altre sto­rie (Clichy) che sulla base di una maniacale analisi dei testi - stili­stica, linguistica, narrativa - pas­sa ai raggi X, raschiando la pelle fino alla carne viva degli autori, le opere di un gruppo di perso­naggi di «chiara fama» del mon­do delle Lettere, mettendo im­pietosamente in luce, con cita­zioni puntuali, il peggio dei «mi­gliori», da Piperno a Moccia: stra­falcioni grammaticali (né Faletti né i suoi editor conoscono la con­secutio temporum), nonsense (quelli di Fabio Volo riempiono un capitolo), eccesso di enfasi (la pesantissima magniloquen­za di Scurati), incongruenze nar­rative, noiosissime tirate retori­che e insopportabili luoghi co­muni (Piperno, Volo e Scurati escono con le ossa rotte dall’ana­lisi delle scene di sesso), perfino spot pubblicitari«occulti» (il nu­mero dei product placement nei libri di Faletti e Moccia è incredi­bile).
Ispirato nel titolo da una cele­bre americanata linguistica di Niente di vero tranne gli occhi, quando il protagonista «con un gesto istintivo sollevò la manica della tuta per controllare l’im­porto della ferita» - non l’entità, proprio l’«importo» - il saggio ri­porta una campionatura irresi­stibile di «Frasi veramente scrit­te dagli autori italiani contemporanei» (questo è il sottotitolo), at­tenendosi a un’unica regola, pe­raltro condivisibilissima: stron­care solo i giganti, cioè i bestsel­ler, ai quali, come scrive Pippo Russo nell’introduzione, «toc­cherebbe un supplemento di responsabilità sociale, perché in queste pagine uno sfondone lin­guistico ha ricadute di massa».
E così, sotto la macchina tritu­ratrice finiscono tutti i più «gran­di», a partire dal «più grande scrittore italiano», come lo defi­nì su Sette nel 2002 Antonio D’Or­rico (e qui ce n’è anche per lui): Giorgio Faletti. Del quale si di­mostra il tormentato rapporto con la lingua italiana, oppure l’uso di un gosth writer america­no.
Altrimenti come si potrebbe scrivere «la testa di April riemer­se in un mo­vimento di capelli vi­vi e iniziò a infilarsi la camicia», o «Anche se la sua vittima avesse chiesto aiuto, cosa di cui dubita­va, di solito nessuno si immi­schia in certe faccende» (!?!) op­pure usare espressioni inesistenti come: «parole gracchiate attra­verso il microfono poco attendi­bile dell’apparecchio», «la voce organizzata di Mary la sorprese a mezza strada», «Oddio, non che non gli piacessero le donne. Era un fior di regolare...» ( regu­lar guy in americano indica uno normale, a posto, con appetiti sessuali «regolari»). Insomma, una scrittura da rivedere «da ci­ma a piedi» come scrive Faletti con una curiosa crasi fra «da ci­ma a fondo» e «da capo a piedi».
Tutto sommato però dalla ra­diografia letteraria di Russo, an­cora più dei narratori improvvi­sati come Pupo (l’esame del thril­ler La confessione, fra lingua bra­da e psicologie «tagliate con la motosega e rifinite col napalm», è stracult) e Giuliano Sangiorgi (del quale si segnala l’uso “metri­co” delle virgole e la “filosofia da canzonetta” tipo «ma se il mon­do è soltanto solitudine e aria, so­lo­ il nulla allora li attraversa e so­lo il niente in cambio può dare»), a uscirne peggio sono Fabio Vo­lo e Federico Moccia.
Volo, dall’alto dei milioni di co­pie vendute dai suoi sei «roman­zi», sprofonda nei tormentoni (divertente l’auto copia-incolla da un libro all’altro delle stesse battute su: carta igienica, seghe, donne, frigo vuoto, il coito, i biso­gni corporali e «il vero amore») e nelle frasi profonde sul senso­ della vita (un capitolo devastan­te). Moccia, invece, è schiaccia­to dalla stessa leggerezza narrati­va dei suoi libri­ mattone (450 pa­gine in media). Senza contare che dal micidiale pamphlet di Russo sono rimasti fuori Maz­zantini, Bignardi, Murgia, Jova­notti e Ligabue. Per ora.