Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 25/6/2013, 25 giugno 2013
IL PLAYBOY HA SPENTO LA LUCE
Il Playboy morì in Argentina nel 1973: “Ce l’ho messa tutta in questo buco del culo del mondo per non essere banale, vuoto, infantile. Qui Gigi Rizzi è semplicemente el señor Rizzi e l’alba non odora di whisky e di Chanel”. Così oggi, mentre nella memoria si confondono fusi orari, emisferi, fughe mistiche e balli sfrenati, la notizia dell’addio all’uomo che conquistò Brigitte Bardot, Fiona Lewis, Magda Konopka, Veruska, Dominique Sanda e persino la sua precettrice genovese, lascia orfani soprattutto in un mondo che non esiste più. A Saint Tropez, dove ballò per una sola estate al ritmo des italiens, Gigi Rizzi ha spento la luce a 69 anni.
Alla fine di una festa. Circondato dagli amici e dalla moglie. Chiudendo per sempre il saloon degli irriducibili che già da tempo vedeva vuoto il trono di Franco Califano. C’era la dolce vita, allora. Per bruciare le notti dormendo due ore. Tirando nei cessi la catena del delirio. Usando la Costa Azzurra come un set di barbarica energia, eccessi, coca, champagne e Ferrari.
Definendo orari e tasso etilico al ritmo di un ‘68 simile a un’Olimpiade epicurea. Il piacere. I nomi esotici. La mappa della notte. Esquinade. Mandrague. Papagayo. Non diversamente da Bartali, Gigi Rizzi e i suoi fratelli facevano incazzare i francesi e molti noiosissimi cornuti dal triplo cognome. “Eravamo velenosi, inconfondibili”, disse a Giangiacomo Schiavi del Corriere della Sera, sviluppando generosamente in biografia le stagioni selvagge affrontate con le basette lunghe. Autoironico e spiritoso. Fanciullescamente sorpreso da tanto successo. Divertito dalla lotta impari tra i conti in banca: “Noi, ragazzi italiani di Saint Tropez, dovevamo lottare contro gli straricchi. Non avevo la Rolls Royce e nemmeno lo yacht da 30 metri, me la giocavo tutta con la mia faccia... Piedi nudi, jeans, capelli al vento e via. Vaffanculo”. Brigitte gli sussurrò qualcosa a una festa. Lui fece piangere senza eccessivi scrupoli Nathalie Delon e l’ultimissima bellezza della notte prima, Babette: “La cameriera con le tette più grandi del mondo”.
TRE MESI. Solo per loro. Rizzi e Bardot. Baci, silenzi e domande: “Topina, cosa faremo da grandi?”. Tre mesi chiusi senza le spiegazioni che le avventure non possono pretendere. Il segreto era non affezionarsi. Sapere di non essere insostituibili. C’era un bellimbusto sul divano, si chiamava Patrick Gilles, Rizzi capì e prese i suoi “stracci”. Anni dopo, nell’autobiografia di B. B., fu costretto anche a subìrne la dubbia metafora culinaria riservata ai “tuareg” italiani di cui Gigì, indiscutibilmente, era il capo carovana: “I signori del deserto abbronzati e vestiti di blu che passavano l’estate in una villa di fronte alla mia… dopo due anni di dominazione tedesca mi lasciavo condire in un ragù alla bolognese, succhiare come una cassata siciliana, degustare come un Asti spumante…”. Tramontata la gloria e chiusi da retate al sapore proibizionista e sessuofobico i locali aperti con la sua banda, a Rizzi toccò la depressione. Il sequestro del passaporto. La paura di un’inchiesta: “Tiravano tutti, e io con loro in quei giorni beati e maledetti, attorno a noi la polvere bianca era come la nuvola di Chernobyl, ci contaminava dentro e fuori”. La convocazione in procura. La gogna che piegò l’incolpevole Lelio Luttazzi. Così “con le catene a maglia larga appese al collo”, i ciondoli, gli anelli e le occhiaie “fino ai denti”, a neanche trent’anni, l’esule Gigi Rizzi decise di ridiventare il signor Luigi. Figlio di un padre dal profilo esemplare, da tenere come santino e mònito nella tasca destra e di una madre amata, precipitata in un burrone in tarda età quasi come era accaduto a quel figlio che per non morire, tra sé e il mito, aveva dovuto mettere l’oceano. Del Gigi Rizzi argentino e del tempo trascorso nella remota periferia di un Paese offeso dalla dittatura di Videla, si intuisce il desiderio d’espiazione. Di distanza. Di ricerca. Le stagioni passate a “Guardare il cielo per 14 anni aspettando che piovesse”, disboscando “quattromila ettari di terra per coltivare fagioli, soia, mais” con 600 vacche come compagnia, i tre figli come conforto, l’asado e la birra per glorificare il martedì e la consapevolezza che i ricordi hanno valore anche se non finiscono sulla copertina di Newsweek perché aiutano comunque ad attraversare la linea d’ombra: “Sprofondo felice nella mia isola protetta. La terra, la gioia di essere padre, la quiete che non finisce sui giornali perché anno dopo anno non fa più notizia. Non mi sento vacuo, inappagato e inutile, sono sereno e ottimista perché ho tutto quello che un uomo può desiderare”. Donatella Rettore incontrò il signor Luigi nel 2004, in televisione, in una sepolta edizione della Fattoria in cui con i capelli bianchi e la vanga in mano, Rizzi replicava a favore di telecamera la sua esistenza di tutti i giorni. Nella tipica isteria da cattività forzata del reality, lo aggredì a male parole: “Non sono una fascista mantenuta dalle donne come te”. Donatella Rettore si sbagliava. Gigi Rizzi era anarchico e non contraeva debiti. Ripagava con l’allegria, all’epoca in cui ridere era una cosa seria.