Mimmo Calopresti, il Fatto Quotidiano 24/6/2013, 24 giugno 2013
“SOLO UN PAZZO PUÒ DIVENTARE CAMPIONE”
Ad Adriano piace correre: macchine, moto, off shore. Ai suoi tempi correva a rete appena poteva, per impattare così al volo la pallina al momento giusto e chiudere il punto. Velocità, grande creatività e atteggiamento tattico al limite dell’incoscienza. Assistere a una partita di Adriano mi dava la stessa emozione di quando andavo ai concerti. Gli piaceva comandare il gioco con tutti i mezzi che aveva a disposizione, quando non gli reggevano le gambe zompava, saltava, si tuffava, ma sulla palla ci arrivava sempre e vinceva. Vinceva, vinceva sempre. Tutto era epico come e quando c’era sul palco the boss, Bruce Springsteen. BORN in the USA. Adriano Panatta è nato dentro il campo dei Parioli nella casa del custode, suo padre. Il campo era limitrofo alle baracche di pasoliniana memoria, abbattute nel 1960 per far posto al villaggio olimpico. Era frequentato dalla meglio gioventù romana, guidata da Nicola Pietrangeli. Il tempo di allenarsi qualche anno usando la racchetta con il manico tagliato che gli aveva preparato il padre, la rete disegnata sul muro dietro casa e Adriano faceva cambiare epoca al tennis italiano, batteva giovanissimo Pietrangeli e apriva le porte dei tennis club ai ragazzi del popolo.
Era nata la prima rockstar italiana. Racchetta al posto della chitarra, capelli lunghi, era diventato un poster da attaccare nelle camerette accanto a quello di Angela Davis e Che Guevara. Gianni Pettenati imperversava alla radio con Bandiera gialla.... finché vedrai sventolare bandiera gialla tu saprai che qui si balla/Vedrai che la gioventù è bella e il tuo cuore batterà.
Maglietta rossa, invece, nella finale in Cile, per dire a Pinochet che non era d’accordo con lui e con il suo regime fascista e criminale, instaurato con un golpe contro il potere del popolo di Allende.
Santiago del Cile, 1976. Missione compiuta e prima Coppa Davis conquistata dall’Italia.
La palla quando si gioca a tennis bisogna mandarla dall’altra parte e deve rimanere in campo sempre: è una questione di vita o di morte. La cosa più importante è il modo come si sta in campo. La linea di fondo ti dice chi sei e cosa devi fare. Borg, che è stato il piu grande pallettaro da fondo campo, arrivava su tutte le palle con una facilità pazzesca e rispondeva con una forza incredibile, era una macchina, aveva un fisico bestiale. La sera prima degli incontri beveva due bottiglie di vodka, il giorno dopo quando giocava era perfetto. Io l’ho battuto perché ci mettevo la fantasia, gli imbrogliavo il cervello. Lui laggiù non si staccava mai dalla linea di fondo, non scendeva mai a rete, quando giocavo contro di lui io stavo in mezzo al campo e accorciavo le palle e lui impazziva.
VERAMENTE ALL’INIZIO, quando ci siamo incontrati, non avevo mai pensato di provare a giocare contro di lui. Alla fine, però, in uno quei lunghi, caldi e anche un po’ puzzolenti pomeriggi estivi romani, quando dalle viscere della terra sembrano sfuggire i miasmi della cloaca massima, abbigliati con eleganti divise sportive ci siamo dati appuntamento al più antico e famoso dei campi da tennis della città. Proprio al suo di campo, ai Parioli.
Palleggiando lentamente, quasi al rallentatore, mi ero fatto raccontare come fosse riuscito a vincere così tanto e le risposte erano state semplici e convincenti Una cosa è giocare un’altra è vincere: sono due sport diversi. Per diventare un grande campione ci vuole oltre che una grande preparazione una buona dose d’incoscienza.
Per vincere ci vuole la magia, la magia dei colpi che sono sempre giusti, quando sai prima del tempo quello che devi fare. Il momento più brutto è quando la magia è passata all’avversario, allora si può perdere e perdere una partita è come la morte: non si può tornare indietro e la partita non si può ripetere.
La magia che s’impossessava del vincente e che poteva svanire, il piccolo morso di un animaletto invisibile che perseguitava senza tregua. In alcuni momenti sembrava scomparire per poi ritornare fastidioso e pungente.
L’animaletto che lo perseguitava in quel periodo, senza tregua, si chiamava Pat Du Prè.
Nel 1979 a Wimbledon, mentre era in salita verso il cielo dei numeri uno, nel periodo in cui tutti i colpi entravano perfettamente e la pallina rimbalzava sulle corde producendo un suono meraviglioso, cominciò a perdere un punto dopo l’altro, senza riuscire ad arrestare il vuoto che lo stava possedendo. La rete svanì e linee del campo si allontanarono verso l’infinito e i sogni di gloria si misero a ballare sull’erba una danza funerea e senza fine.
Perse Adriano e arrestò la sua corsa verso il cielo. Non tutto era possibile nella vita, gli era sembrato un salutare ridimensionamento. Doveva rinunciare a qualcosa. Il retropensiero, la vera linea di demarcazione del suo agire in quei giorni gli era arrivato da un giocatore di tennis qualsiasi. Uno che non aveva mai vinto niente fin a quel momento. Perse in cinque set 3-6 6-4 6-7 6-4 6-3. Un pulsare continuo e regolare come una palla che tutte le volte che si manda dall’altra parte, ritorna sempre senza uscire dai limiti delle righe, dai confini del campo. Quando la palla torna sempre da te vuol dire che è finita, il dio del tennis ti ha abbandonato.
Vinse ancora e perse ancora, ma la verità è che Du Pré quel giorno mise fine a quella magia che si si era impossessato di lui, il 9 Luglio 1960, giorno in cui venne al mondo ai Parioli.
A WIMBLEDON tutto sembra ovattato, la pallina accarezza l’erba tagliata perfettamente. Il suono che produce è irraccontabile. Quando chiudo gli occhi immagino sempre una chiesa con un organo che suona una melodia meravigliosa e penso alle partite che ho giocato su quel campo. Bisogna parlare piano, bisogna essere lievi nei passi e nei colpi. Bisogna essere leggeri ed eleganti come lo fu Rod Laver. Wimbledon è un rincorrersi di silenzi ed esplosioni. Quando ci giocavo io arrivava la caciara degli italiani sugli spalti e tutto cambiava. A Roma, al centrale del Foro Italico, la caciara era all’ordine del giorno. ’Adriano Adriano’, il pubblico ritmava tutto. Parlare con i primi della fila era il mio modo di concentrarmi.
Il Roland Garros è allegria allo stato puro. I campi americani molto tecnici e spettacolari con le loro superfici colorate. Erba, terra rossa, cemento e sintetico sono la tastiera su cui bisogna battere il ritmo della partita. Cambia il tempo dell’impatto della pallina e dello strusciare della suola, cambia tutto e la melodia varia dal classico al moderno. Il tip tap è difficile da fare l’unico forse a ballare sul campo come Fred Astaire è stato John McEnroe, un maledetto mancino, geniale, un teppista intellettuale, rissoso che non ti concedeva nulla, cercava di rubarti i punti, non ti mollava mai. Ho riso come un pazzo il giorno che lo vidi su un palco, qualche anno fa, suonare con un gruppo insieme a Patti Smith. ‘People have the power’ urlava, veramente si muoveva come un grande musicista rock ma niente a che fare come quando lo vidi giocare la prima volta e non sapevo niente di lui. Stavo giocando un doppio insieme a Bertolucci e non vedevo l’ora di sbrigare la pratica, avevo un appuntamento importante per l’ora dell’aperitivo. Lui e il suo compagno ci fecero sudare come maiali per arrivare al set ball. Vincemmo, ma non ci volevo credere quanto era forte quel ragazzino cresciuto nel Queens. Lo sconosciuto sarebbe diventato uno dei piu grandi tennisti del mondo. Un mese fa l’ho reincontrato a Parigi e abbiamo giocato insieme al Roland Garros, lui ha ancora un po’ di fiato da spendere, io non ne ho più. Basta, non gioco più, mi voglio divertire, provare a diventare come Nastase che rideva sempre e non prendeva nulla sul serio. Faceva ridere tutti e vinceva lo stesso, era un pazzo.
Solo un pazzo può pensare di diventare un grande campione. Ed io lo fui per qualche anno.
19 giugno 2013 20:05:10
Caro Adriano sarai per sempre il mito di quelli che come me pensano che nella vita si gioca sempre all’attacco. Ciao e a sabato. Vediamo qualche partita in televisione?