Stefano Carli, Affari&Finanza, la Repubblica 24/6/2013, 24 giugno 2013
RAI, SPOT GIÙ E COSTI SU IL PIANO GUBITOSI È FERMO MA CI SONO I 12 CANTIERI
È una calda estate per la tv pubblica e non certo per il meteo. Nel giro di una settimana il fortino di Viale Mazzini ha visto comparire all’orizzonte tre segnali portatori di presagi infausti. Prima l’incubo della Grecia, che ha chiuso in una notte la Ert, la Rai di Atene. Poi l’uscita di un report di Mediobanca che fa due conti sugli asset del gruppo controllato dal ministero dell’Economia, fissa un valore, non particolarmente attrattivo, di appena 2,5 miliardi e ripropone l’incubo della privatizzazione. Infine, un passaggio dell’intervento del viceministro alle Comunicazioni Antonio Catricalà alla Camera in cui ha posto l’accento in modo “irrituale” sul tema della fine della concessione che lega la Rai allo Stato nel 2016. Troppo per una sola settimana. E il sistema è entrato in fibrillazione. Sono tornate a circolare le voci su un possibile cambio del vertice in carica da poco più di un anno, tanto più che la presidente Anna Maria Tarantola, nel frattempo tirata pure in ballo - ma marginalmente e senza conseguenze nelle pieghe della vicenda Montepaschi, e il direttore generale Luigi Gubitosi, sono stati nominati dal governo Monti e potrebbero trovarsi “diversamente allineati” rispetto all’attuale governo delle larghe intese e soffrire in particolare il declino del partito dell’ex premier. Il fatto è che quando si parla di Rai il versante politico delle polemiche prende subito il sopravvento. Ma stavolta potrebbe essere diverso, perché il quadro di riferimento è cambiato. La Rai così com’è oggi non è più sostenibile. Perché costa troppo per quello che produce e le risorse non ci sono. E perché produce troppo poco per un mercato che sta cambiando rapidamente e in cui la grande manna della pubblicità ha segnato un arretramento che promette di stabilizzarsi. Insomma, i ricavi da spot non cresceranno quest’anno e se lo faranno il prossimo sarà di pochi punti percentuali, non certo tali da recuperare il meno 15% del 2012. E per Rai è ancora peggio. Sipra fatturava oltre un miliardo nel 2010 e 964 milioni nel 2011. Ha fatto 745 milioni nel 2012 e il tendenziale stimato ad oggi per la concessionaria, ora ribattezzata definitivamente Rai pubblicità, vede un 2013 chiudere sui 700 milioni. L’altra voce di ricavo, il canone, ha un’evasione stimata dalla Commissione di Vigilanza poco sopra il 27%. Una famiglia italiana su quattro non lo paga. E tra la pressione fiscale alle stelle per il contenimento della spesa pubblica e una spending review che si affida ancora più ai tagli lineari che all’efficientamento dei costi (vedi per esempio i ritardi nella digitalizzazione della Pa) parlare di recupero dell’evasione è fuori discussione. Anche il viceministro Catricalà ne parla come un problema da risolvere ma è una petizione di principio più che una indicazione operativa.
Viste con gli occhiali della sostenibilità economica le polemiche della settimana scorsa prendono un’altra luce. L’obiettivo finale non è tanto quello di togliere la concessione alla Rai tra tre anni (che in politica non è un tempo lungo, è un’eternità) per far magari spazio a Mediaset (che ha tutt’altro a cui pensare ora piuttosto che a prendersi il servizio pubblico e il canone), ma di prendere atto di una realtà. L’era del duopolio è finita. Perché la pubblicità è in crisi; perché la differenza tra il mondo della tv gratuita e la pay non vale più; perché il possesso delle frequenze non è più l’obiettivo numero uno per non fare entrare altri nel mercato (e infatti il loro valore cala a picco); perché il monopolio di reti, torri e ponti radio (leggi RaiWay e Ei Towers di Mediaset) non costituisce più un rubinetto per controllare il mercato. E infine perché il nemico comune per tutti, non solo Rai, Mediaset, Sky e tutti gli altri broadcaster , ma anche per il resto del settore media, la stampa, la radio, l’editoria e il cinema, sono i giganti di Internet.
La soluzione a tutto questo è nota a tutti: puntare sui contenuti. Si torna al vecchio “the content is the king”. Ma per fare i contenuti servono i soldi. Che sono oggi la vera risorsa scarsa, altro che le frequenze. E allora tutto si fa più chiaro.
Da questo punto di vista Viale Mazzini è in stallo. Non manda segnali di aver imboccato una strada nuova. Eppure i numeri del 2012 sono chiari: ha guadagnato in share distanziando Mediaset di ben 6 punti contro i 3,9 del 2011, ma non raccoglie risultati. Deve cambiare. Ma il piano industriale impostato dal dg Luigi Gubitosi ha per ora raccolto soprattutto critiche. I più negativi, a Viale Mazzini, parlano di operazioni verticistiche sottolineando il fatto che in questa congiuntura negativa abbia portato una prima linea manageriale esterna nel gruppo, aumentando quindi intanto i costi. Ha nominato un capo della finanza ex Fiat (Camillo Rossotto), uno delle relazioni istituzionali ex Wind e Alitalia (Alessandro Picardi), capo dell’auditing ex Wind e ex Eni (Gianfranco Cariola) e un direttore generale di Rai Pubblicità, Fabrizio Piscopo, che è l’unico a venire dal settore, visto che prima si occupava di pubblicità per Sky. Ha tentato una riorganizzazione di tutti i comparti dell’azienda attorno a 4 super direttori a cui avrebbero dovuto riportare tutte le direzioni operative, ma è stato bocciato dal Cda. Di quella proposta di operativo c’è solo - pare - il cambio di pelle della funzione Audit, non più solo un controllo contabile, come prima dell’arrivo di Cariola, ma un potere di verifica più sostanziale anche sull’operato delle varie direzioni, anche su temi di organizzazione produttiva.
Quelli che invece sono più possibilisti nel giudizio su Gubitosi, gli riconoscono invece di aver dato impulso su alcuni temi che evidentemente gli sono più congeniali: innovazione tecnologica, la digitalizzazione delle produzioni, partita con quella del Tg2, una maggiore attenzione al Web (che però non avrebbe ancora sortito effetti visibili), il rilancio del ruolo della Rai nella digitalizzazione della Radio, tema che per i suoi predecessori ha sempre contato meno di zero. E da ultimo segnali di attenzione alla nuova frontiera dell’alta definizione.
Ma sono, per l’appunto, segnali. Sarà perché i soldi non ci sono, sarà perché sui temi editoriali, ossia i contenuti, è il Cda ad avere ancora i maggiori poteri, ma proprio su quello che è il campo di battaglia del mercato multimediale le novità sono minori. O, almeno, sono solo sulla carta. Una prima prova del nove delle strategie di Gubitosi, una cartina al tornasole per vedere se la concentrazione di potere organizzativo che ha realizzato inizia o no a dare dei frutti, saranno i “Cantieri”.
La parola è il leit motiv in Viale Mazzini da meno di due mesi in qua, quando Gubitosi li ha presentati, come «approfondimento diagnostico delle principali aree aziendali per definire le linee prioritarie di sviluppo». Sono dodici: Rai Pubblicità, Ricavi commerciali, Ottimizzazione Palinsesto, All News, Rilancio radio, Web, Nuovo modello produttivo, Digitalizzazione, Revisione processi, Risorse umane, Immobili, Efficienza acquisti. Di tutti il compito più facile e scontato p quello dell’All News, che dovrebbe partorire la lungamente attesa fusione tra Televideo e Rai-News24. Ma per ora tutto tace anche lì. Le premesse per un ripensamento del prodotto ci sono tutte. Sulla carta. Ora si tratta di vedere gli effetti. E il primo, auspicato, è finalmente di vedere una Rai che produce fiction non solo per i suoi canali ma anche guardando ai mercati esteri. A parte il Commissario Montalbano non sono tanti i prodotti che vanno fuori Italia. Anche successi come Don Matteo, a parte le lunghezze che non corrispondono ai formati standard dei mercati internazionali, che sarebbe il meno, oggi fanno un passaggio su Rai 1 e poi finiscono ad alimentare le repliche di Rai Premium. Che lunedì scorso ha superato un altro record, con il 3,89% di share della miniserie “Raccontami una storia” ha battuto pure La7. Ma l’epoca dei record di ascolto a tutti i costi è ormai finita. E con lo share da solo ci si fa poco. Per avere un futuro la tv pubblica deve produrre contenuti validi. Solo così giustifica il canone e vende anche all’estero. Il modello resta la Bbc. Guardando la programmazione Rai, è difficile credere che il 72,6% sia “servizio pubblico” come dichiarato e che è una media tra l’89% di Rai3, il 67% di Rai2 e il 61% di Rai1. Ma d’altra parte nessuno ha mai definito esattamente che cosa sia e il dato non è contestabile.