Marcello De Cecco, Affari&Finanza, la Repubblica 24/6/2013, 24 giugno 2013
IL PARADISO AMARO CHE CI LASCIA BERNANKE
Lunedì scorso, il presidente Barack Obama ha dato un benservito nemmeno tanto cortese a Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve che Bush aveva nominato nel 2005, a sostituire l’ormai troppo provato Alan Greenspan, che resisteva dal lontano 1987 e aveva visto più crisi di qualsiasi altro presidente della Fed. La nomina di Bernanke con effetto dal gennaio 2006 lo vedeva lasciare il posto di capo dei consiglieri economici di Bush, incarico al quale lo stesso Bush lo aveva chiamato nel 2004, togliendolo alla sua cattedra a Princeton. Bernanke aveva scritto un importante saggio sulla politica della Fed nella Grande Depressione degli anni trenta. Bush sembrava dunque dotato di poteri profetici sulla fine che le sue folli politiche di guerra avrebbero fatto fare di lì a poco all’economia Americana.
Obama ha dichiarato che Bernanke aveva reso il suo servizio alla Fed e alla nazione anche oltre quello che lo stesso Bernanke voleva come termine ultimo. Era dunque tempo di un avvicendamento. Una dichiarazione scontata ormai da parecchi mesi, ma il modo in cui è venuta era inatteso. E’ sembrato, come alcuni commentatori hanno notato, un licenziamento vero e proprio. Perché un cambiamento di toni e modi così repentino?
Il 22 maggio Bernanke aveva reso una testimonianza al Comitato economico congiunto del Congresso, dove anche lui era stato assai poco cerimonioso nei confronti sia del governo che della opposizione. Li aveva senza molte cerimonie accusati entrambi di rendere più difficile il compito della Fed, impegnata nella sua politica di rilancio dell’economia mediante un uso assai spregiudicato di metodi non ortodossi di spinta monetaria. Il compito di fronte al perdurare della crisi era, per tutte le autorità economiche americane, quello di far tornare il livello della disoccupazione sotto il 6,5% , cioè in un territorio simile a quelli dei tempi normali, quando un 5% è considerato soddisfacente, e il livello dei prezzi a quel 2-3% anch’esso ritenuto normale.
Ma, disse Bernanke a governo e opposizione, con le vostre ridicole liti sull’esercizio provvisorio, alla irresponsabile ricerca di vantaggi elettorali a tutti i costi, e con le risultanti misure obbligate di ’sequestro’ della spesa pubblica, avete costretto la Fed a continuare la sua politica di iniettare 85 miliardi di dollari mensili nel sistema finanziario americano con notevoli pericoli per la stabilità economica degli Stati Uniti nel medio e lungo termine.
Nelle parole di Bernanke si avvertiva una forte impazienza nei confronti di un sistema politico degradato. La stessa che spesso si nota nelle parole di un altro banchiere centrale, Mario Draghi, che pure ha dovuto esercitare funzioni vicarie della politica, per una divisione - invece che tra repubblicani e democratici - tra paesi dell’Euro che si ritengono saggi e morigerati e obbligati a sostenere la malagestio della cosa pubblica da parte dei paesi dell’Europa mediterranea, con la Francia che oscilla tra i due blocchi e la Gran Bretagna che, fuori dell’Euro, fa la stessa cosa.
In effetti, nella testimonianza al Congresso, Bernanke rispediva al mittente le accuse di incompetenza rivolte alla Fed e al suo timoniere da quelli che vedono la disoccupazione ferma ormai bel oltre il 7% (specie se si considerano anche i due milioni di americani che sono usciti dalla forza lavoro con la crisi e non ci sono ancora rientrati) e un tasso di inflazione che è ben inferiore al 2%. Sono evidentemente accuse che bruciano Bernanke, ormai conscio del fatto che dall’inizio del 2014 qualcun altro sederà al suo posto - con ogni probabilità la sua vice Janet Yellen - e che le due cifre che ho appena citato, aggiunte ad un precarissimo equilibrio raggiunto a grave costo nel sistema finanziario americano, faranno impallidire la sua imagine di timoniere della Fed in tempi difficili, una immagine che ormai sembrava acquisita, dopo la politica monetaria estremamente attivista e anti convenzionale che non solo aveva condotto negli anni della crisi esplosiva, ma che aveva anche trasmesso ai suoi colleghi in Europa e Giappone.
Dopo il benservito di lunedì, Bernanke si deve essere sentito veramente tradito dall’intera classe politica che aveva salvato dal precipizio del 2008-2009. Anche il presidente democratico che aveva rinnovato l’incarico per altri quattro anni a lui, dichiaratamente repubblicano (come d’altronde, in condizioni solo poco meno gravi, aveva fatto Clinton per il repubblicano fondamentalista Greenspan), lo metteva alla porta dandogli sei mesi per fare le valigie e tornare a Princeton.
Così il gusto della vendetta deve essere entrato nel suo animo, tanto da indurlo, a poche settimane dalla testimonianza al Congresso, a indurire la propria posizione nella riunione dell’Open Market Committee della settimana scorsa, sulla base di numeri macroeconomici notevolmente rivisti verso l’alto per giustificare una fine nemmeno più tanto graduale della politica di moneta ultra facile degli ultimi cinque anni. Dopo di me, è sembrato che dicesse Bernanke, non potrete tanto facilmente tornare ad una nuova dose di spinta monetaria a tutti i costi con una nuova politica di allargamento dell’attivo del bilancio della Fed. A poco servirà che Janet Yellen sia da decenni alla sinistra del partito democratico. Se vuole che la sua candidatura a presiedere la Fed sia accettata dal Congresso deve compromettersi a favore della nuova austerità rappresentata dalla fine della politica del denaro a buon mercato. E deve farlo anche se, sia lei che ogni persona che abbia più di trent’anni, può ricordare quello che avvenne nel fatale 1994, quando anche Greenspan decise che la moneta facile messa in opera dopo la crisi dell’Ottobre 1987 e durata cinque anni, doveva giungere al termine, avendo ottenuto lo scopo di salvare il mercato finanziario e in particolare le banche e le società di assicurazioni con iniezioni di liquidità che permettevano loro lauti guadagni sui mercati obbligazionari.
Quel che accadde allora, quando molti finanzieri, in America e altrove, cercarono un ultimo hurrah prima di ritirarsi dai mercati e furono dalla caduta repentina di essi costretti ad affrontare perdite gigantesche, purtroppo minaccia di ripetersi nei prossimi mesi. Non perché i mercati finanziari internazionali non credono a Bernanke, ma perché gli credono perfino troppo e nelle condizioni di ’tempo reale’ che prevalgono su tali mercati oggi, hanno iniziato una politica di vendite delle obbligazioni che non solo mette in difficoltà il Tesoro degli Stati Uniti, ma anche le tesorerie dei paesi emergenti, di quelli mediterranei dell’Euro e di quelli dell’Europa orientale. Così ciò che accadde nella primavera del 1994 rischia di ripetersi nell’estate del 2013, condizionando allo stesso tempo la politica monetaria americana, con una Janet Yellen che dovrà mostrarsi assai meno radicale di quello che è, con un Obama costretto a fare almeno alcune delle riforme strutturali promesse e con una opposizione repubblicana che dovrà abbandonare gli slogan del Tea Party e collaborare col governo per introdurre misure ragionevoli di politica fiscale.
Certo non è un modo ordinato di procedere, da parte delle autorità politiche ed economiche del paese centro. Se i mercati continuano a credere a Bernanke e ad aspettarsi una forte anche se graduale diminuzione delle iniezioni di liquidità da parte della Fed nel 2014, questo ne indurrà una privata già nei prossimi mesi, un altro blocco del funzionamento dei mercati, non molto diverso da quello, iniziato nel 2007, dal quale si cominciava a uscire solo ora, per opera di Bernanke e di Draghi. Continuerà la salita dei tassi per i bond dei paesi emergenti e di quelli periferici dell’Europa, la Cina non potrà fare da parafulmine, impegnata com’è in una stretta monetaria voluta per mettere le redini al mercato finanziario e alle grandi banche e ridare autorevolezza alla banca centrale, e il Giappone vedrà ulteriormente deprezzarsi lo Yen, dato che i capitali si dirigeranno verso New York, attratti dai maggiori rendimenti.
Con tassi a lunga in rialzo gli investimenti soffriranno in tutto il mondo. Questo ha un suono assai sinistro per le autorità di paesi come Italia e Spagna, impegnati in un rilancio che non sacrifichi gli investimenti se si dà un po’ di fiato alla domanda interna. Le nostre banche, dovendo assorbire le perdite che il rialzo dei tassi comporterà, per i bonds che hanno in portafoglio, saranno costrette a prestare ancor meno di quello che hanno fatto finora.
Solo l’euro e le esportazioni europee potranno beneficiane, perché nella nuova atmosfera non è fuori luogo prevedere una discesa del cambio euro/dollaro a 1,20 o persino a 1,10. A chi venderanno i nostri esportatori non è però chiaro, se nei paesi emergenti si determinerà quella stretta che, per motivi di politica monetaria interna, già si vede da qualche tempo all’opera in Cina. Sarà forse una vittoria di Pirro persino per i tedeschi, avvantaggiati dai tassi di interesse, che cadranno ulteriormente per l’aumento dello spread con gli altri paesi dell’euro. Godranno di vantaggi concorrenziali, ma in Europa i soldi sono ormai finiti quasi dappertutto e anche negli emergenti ci sarà poco da ridere, specie se si considera la caduta assai rapida dei cambi di questi paesi con euro e dollaro che favorirà i produttori locali e quelli giapponesi.
Sarà probabilmente per Ben Bernanke una fin de partie come non si era immaginato, dopo aver fatto la storia monetaria negli anni della crisi con la sue eterodosse misure e aver portato fuori delle secche l’economia americana e con essa anche quella del resto del mondo. Si riafferma dunque la famosa legge delle conseguenze non volute dei comportamenti razionali. L’affermò con forza Friederich von Hayek e sembra riproporsi anche in questa occasione.
In un recente discorso ai laureati di Princeton, Bernanke ha affermato: “Congratulations, graduates. Give them Hell” (il grido di guerra della squadra di football di Princeton). Solo qualche giorno dopo, il buon esempio sembra averlo voluto dare lui stesso, cercando, come Sansone, di morire con tutti i filistei!