Alberto Melloni, la Lettura, Corriere della Sera 23/6/2013, 23 giugno 2013
IL LUOGO PER RICOSTRUIRE L’ALFABETO DELLA RELIGIONE
L’analfabetismo religioso è un peso insostenibile per una società pluralista. La città di oggi vorrebbe essere, come si suol dire, «un crogiuolo di culture». Spesso si deve accontentare di essere un lungo scaffale sul quale le diversità spirituali si allineano, imballate da soffici dosi di ignoranza.
Una ignoranza che poi finisce per appropriarsi di simboli o segni religiosi in funzione identitaria, senza comprenderne il senso e il peso; fino a riprodurre più in piccolo l’arrogante sincerità di Mussolini che si definiva «cattolico e anticristiano». L’esperienza religiosa infatti, quando è autentica, non presume di sé. Chi la vive conosce non solo la fragilità del fare, la vanità del dire, ma soprattutto la terribile libertà della parola rivelata: che rende impuro l’impuro, puro il puro, ma sa anche rendere puro l’impuro, e viceversa, in un moltiplicarsi di percorsi che sono un labirinto di umiltà e una palestra di violenza, con lo stesso titolo.
La terapia dell’analfabetismo religioso richiederebbe in Italia cose che erano difficili prima delle vacche magre e che adesso sono difficilissime. Un laicismo sdentato e una codardia episcopale hanno cancellato le facoltà di teologia che nessuno ha saputo riattivare, sicché noi oggi non abbiamo scuole per una formazione «repubblicana» dei capi religiosi. Polemiche vecchiotte sulla scuola pubblica oscurano i grandi problemi di una società dove convivono religioni che non sono mai state vicine per secoli. E la pressione complessiva che grava sul sistema formativo fa sì che, ora di religione inclusa, si finisca per spiegare Spinoza senza la Qaballah, Galileo senza la Genesi o Deng senza Confucio, e le fedi senza Scritture.
Anche per questo i più monumentali simboli religiosi delle città — e il Duomo lo è per antonomasia come ricorda il cardinale Scola — rimangono incomprensibili a tanti. Perfino nella più trasparente tessitura urbanistica delle piazze e del cielo, si legge solo un gigantismo che vela gli spazi e gli oggetti. Sono infatti tanti coloro che, passando davanti al Duomo, fanno una fugace visita turistica: ma non si danno né si darebbero il tempo, lì, di cercare significati storici e artistici. Che sono disposti a ricevere in uno spazio museale.
Per questo, mi pare, il cardinale Scola e la Veneranda Fabbrica col suo presidente Angelo Caloia annettono tanto valore alla riapertura del Museo del Duomo: perché esso testimonia il desiderio di offrire anche a chi non sa «leggere» gli spazi, le vetrate, le statue, un modo diverso di avvicinarsi a questi oggetti. Il museo come manuductio a una comprensione di un monumento e di ciò che lo ha reso e lo rende vivo è un servizio offerto non solo agli specialisti e ai turisti: ma tocca e riguarda quei «nuovi» italiani che per provenienza geografica o culturale, per appartenenza religiosa o per matura disaffezione, non padroneggiano una lingua artistica e spirituale, ma non vogliono esserne estranei.
Se posso permettermi una nota personale, devo dire che a me piace pensare che il Museo del Duomo sia il primo tassello di una Expo che guarda non solo al cibo che si coltiva e si mangia, ma anche al cibo della mente e dell’anima. Se la quota di «cultura» di Expo 2015 fosse fatta di arte astratta o quadri di mangiatori, sarebbe un danno per l’Expo e per l’Italia: l’organizzazione e la città sapranno offrire ai visitatori dell’Expo un percorso nel food for thought/food for soul; sapranno attirare coloro che vengono per capire uno «stile» italiano che inizia a tavola, ma si rivolge poi ad altre tavole, che dicono come ciò che ha di fatto permesso all’Italia di diventare plurale è stato un tessuto di bellezza e fede. Una fede che si mette in mostra in un museo non per dirsi morta, ma per offrirsi a una lettura più ampia.