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 2013  giugno 23 Domenica calendario

CARO HITCH, QUANTO MI MANCHI


Martin Amis fa capolino da una porta secondaria. Bianca, come i muri di certe vecchie case a Notting Hill, dove ha fissato l’intervista con «la Lettura», in un’abitazione di amici. Ha un maglione scuro, il volto rubro, i capelli grigi e gli occhi curiosi, come gli scoiattoli che folleggiano ad Hyde Park, a pochi isolati. L’occasione dell’incontro è la prima uscita italiana, grazie a Isbn, de L’invasione degli space invaders. Un libro quasi introvabile nell’edizione inglese (del 1982), in cui Amis fa una fenomenologia psicologica e sociale, in presa diretta, del mondo dei videogiochi che stavano invadendo la Terra.
Si siede sul divano, in una sala con vetrate così ampie che la luce arriva a cascata, e quando le nuvole coprono il sole la spengono di netto, come se ci fosse un interruttore. Prima di iniziare, controlla un buco di sigaretta nel maglione: «Mia moglie mi ha detto che lo avrebbe riparato — spiega —, ma poi è partita per New York» (città dove lo scrittore abita, dopo aver lasciato Londra, tra le polemiche).
«È il primo saggio che ho scritto, ci sono affezionato, mi piace l’edizione italiana, soprattutto la copertina — dice senza paura di specchiarsi nella foto di se stesso trentenne —; è una curiosità, perché ero appassionato solo ai giochi di quella specifica generazione». Ma niente letture allegoriche. L’invasione degli space invaders «non rappresentava la paura di un’invasione, aliena o russa, come credeva mio padre. Era piuttosto la paura del capitalismo incontrollato. Quei videogiochi celebravano una nuova ingegnosità». Quella di Steve Jobs, all’epoca in forza alla Atari (azienda di videogame, ndr), citato da Amis nel libro: «Un innovatore e un tecnocrate». Mark Zuckerberg? Un «geek!», dice allungando le vocali della parola che indica un fanatico dei computer.
I social network sono «la morte della leggerezza, perché impiegano il tempo da perdere». Amis è poco digitale: «A casa a stento riesco ad accendere il televisore senza l’aiuto dei miei figli più giovani». Per Amis droni e intercettazioni al cellulare o via web sono «perversioni» della democrazia americana: «È una reazione tremendamente eccessiva all’ansia per la sicurezza nazionale. Ascoltare ogni singola telefonata è grottesco. Dicono che se non violi la legge, non hai niente da temere, ma in realtà c’è una zona grigia che anche chi rispetta la legge deve temere». I governi non rinunciano al potere che si danno, e la democrazia si deteriora: «Le uccisioni da parte dei droni sono troppo. Possono colpire anche persone in America; è incredibilmente arrogante. Apparentemente è come giocare a un videogioco, osservi l’uccisione mentre avviene».

Anziani, lo tsunami d’argento
Ma la guerra dei mondi non sarà quella tra umani e androidi. Ci sarà una «guerra civile tra i giovani e i vecchi. Ci sarà quello che viene definito "tsunami d’argento". Le persone anziane saranno una mostruosa invasione di rifugiati. Il mondo occidentale si sta ingrigendo, sarà il più grande salto demografico mai avvenuto nella storia del pianeta. Le distorsioni nel sistema sociale saranno catastrofiche». Per questo, secondo Amis, bisogna superare il tabù dell’eutanasia: «Deve esserci una "cabina per l’eutanasia" a ogni angolo di strada, dove ti servono un Martini, ti danno una medaglia e ti sopprimono». Posizioni che in Inghilterra sono state considerate offensive nei confronti delle persone anziane: «Io sono anziano!», protesta Amis, che di anni ne ha 64 e aggiunge: «La repulsione per l’eutanasia è causata dagli abusi che ne fece Hitler, ma non vedo perché debba essere solo la Svizzera a permettere alle persone di morire con dignità».

Gli scrittori migliori sono morti
Quanto a letture, Amis non frequenta autori più giovani di lui. Niente Bret Easton Ellis e Jonathan Franzen: «Non leggo persone giovani o più giovani di me, preferisco quelle anziane. Cioè, spesso, morte». Roberto Bolaño? «Non l’ho letto, mio figlio sì. Sembra uno scrittore formidabile. Trovo David Foster Wallace molto interessante. La sua morte è una vera tragedia. Il suicidio è come un matrimonio andato male. Il suicida è sposato con la vita e deve andarsene, ma non può andare da nessuna parte». Tra le scrittrici, apprezza Alice Munro, «per la maestria nello scrivere storie brevi», e Joyce Carol Oates, «per la sua produttività». Tra Philip Roth e Saul Bellow preferisce il secondo: «Amo molti libri di Roth, ma non ha il peso di Bellow».
Poi appoggia il palmo destro sul petto: «Quando diciamo di amare uno scrittore, anche quando lo diciamo con la mano sul cuore, stiamo esagerando e, in realtà, intendiamo dire che amiamo la metà delle sue opere. Ed è vero anche per Shakespeare. Gli scrittori sono strani e i lettori sono particolari. Non c’è motivo per cui debbano essere destinati gli uni agli altri. Viviamo di compromessi. Ma gli autori che amiamo, almeno per quella metà delle loro opere che amiamo, li amiamo davvero».
Il parametro migliore è sempre la posterità. Finché sei vivo, anche se vinci premi e ricevi ottime recensioni, non sai quanto vali: «Facciamo figli e scriviamo libri per essere ricordati, raggiungere un certo grado di immortalità, continuare a esistere anche dopo la morte. Tutti i giudizi di valore che uno scrittore riceve attraverso le recensioni e le critiche letterarie nel 99 per cento dei casi sono solo retorica. Il tempo è l’unico giudizio di valore. Nessuno scrittore, nessun artista può sapere se è bravo oppure no finché non muore. Quindi, di fatto, non lo sa. Ma questo è un bel paradosso che credo aiuti a rimanere sinceri».

Dio salvi le feste della regina
Cosa gli manca dell’Inghilterra? Il calcio: «In America non c’è lo stesso spirito. Mi affascina vedere Messi giocare, o Ronaldo. Sono grandiosi, dei geni. E Balotelli, un eccentrico, mi piace. È molto generoso, va in giro con grandi quantità di soldi e li dà alla gente. Sembra davvero un ragazzo gentile». Sulla generosità di Berlusconi con le ragazze, non si scompone: «Berlusconi che paga delle ragazze è solo un problema di morale privata. Se si fosse trattato di soldi pubblici, allora sarebbe stato anche di etica».
L’altra grande passione sportiva di Amis è il tennis: «Dei quattro più grandi ammiro Nadal, prodigioso, molto fisico. Tutta la sua forza sta nel sedere, estremamente muscoloso. Parte tutto da lì. Federer è quello con più stile. Djokovic è poco artistico. Murray è un piacere da guardare, come era Mecir, un giocatore che spiazza». Cosa non gli manca dell’Inghilterra? La famiglia reale: «Vite distorte dall’interesse dei media. Quando Kate Middleton avrà il bambino, sarà un bambino molto famoso; è una cosa ridicola. Che cos’ha fatto questo bambino a parte nascere?». Di positivo ci sono i giorni di festa: «Irrazionali eppure molto gradevoli. Se tutta la nazione per un giorno impazzisse completamente, in altri Paesi succederebbero disastri. Qui no, hai la sensazione che siano tutti tuoi fratelli e sorelle». Se il principe Harry chiedesse la mano di una delle sue figlie, non la prenderebbe bene. Le direbbe: «Non lo fare, ha i capelli rossi» (in inglese: ginger).

Hitchens, l’amico ribelle
Amis ha perso la madre da poco, ma il lutto che si porta dietro da più di un anno è per l’amico Christopher Hitchens, morto nel dicembre 2011: «Chris era la miglior compagnia del mondo. Il nostro era una specie di matrimonio omosessuale non consumato. Con le battute potevamo parlare in codice, lo abbiamo fatto per quarant’anni. E adesso è finita».
I ricordi li accoglie con un sorriso: «Una volta eravamo in un minuscolo ristorante a Londra e c’erano due ragazzi dell’alta società molto fastidiosi che parlavano con le cameriere. Uno di loro si avvicinò — ovviamente voleva che spostassimo i tavoli —, venne lì, si accucciò e disse: "So che ci odierà per questo..." e Christopher lo interruppe: "Ti odiamo già". Fu una cosa sconcertante. Solo lui poteva pensare e solo lui poteva dire una cosa simile. Sarebbe stato sgarbato con il re o con il Papa, ma anche con il cameriere se non faceva bene il suo lavoro. Molti di noi non si sentono a proprio agio all’idea di essere scortesi con una persona di livello sociale inferiore. Lui no. Valutava ogni caso singolarmente».
Non era semplicemente un «bastian contrario», ma un ribelle: «Io ero il poliziotto buono — scherza Amis —, lui quello cattivo. Coraggioso, anche fisicamente, aveva spesso discussioni violente in pub malfamati. I suoi avversari lo guardavano negli occhi e capivano che non si sarebbe arreso, dovevano ucciderlo per avere ragione, così si tiravano indietro». Non sempre. «Una volta, a Beirut, su un muro c’era il poster di un partito fascista. Lui prese una penna e scrisse "Vaffanculo". Poi uscì un gruppo di cinque uomini. Chris si fece pestare a sangue solo per aver detto quello che pensava».
criticalmastra.corriere.it