Massimo Martelli; Sergio Rubini, La Stampa 24/6/2013, 24 giugno 2013
IL PITTORE STA MALE E IL CHIRURGO OPERA IL QUADRO
«Ma sei matto?», questa è stata la mia risposta quando il pittore Lorenzo Indrimi è venuto in ospedale dicendo che aveva fatto un sogno: «Un mio quadro ha un tumore. Devi operare lui, non me».
Aveva dipinto una tela rossa, macchiata da un’ombra azzurra piuttosto invasiva. Nelle diagnosi mediche, la parola «ombra» sta spesso a significare la presenza del male.
A Lorenzo avevo diagnosticato già nel 2006 un tumore al polmone. Cerco di essere il più possibile delicato con i miei pazienti, di non violentarli, di non sconvolgerli quando si tratta di comunicare che è necessario operare. Sono convinto che il tumore non sia mai un’emergenza, ma certamente quando il momento arriva, si deve operare.
Lorenzo non voleva e la sua ostinazione – anche nel rifiutare ulteriori controlli – mi ha obbligato a riflettere. In ventitrè anni ho visitato settantamila pazienti e ho imparato che c’è una relazione tra l’insorgere del male e le vicende dalla vita privata. Non esiste malato che possa guarire se non ha voglia di guarire.
Molte ricerche testimoniano di come la cicatrice di un paziente dopo l’intervento guarisca più rapidamente se dalla finestra della sua stanza d’ospedale vede un p rat o, una montagna, la bellezza della natura; se invece davanti agli occhi ha un brutto panorama urbano, il tempo di guarigione aumenta.
C’è del vero nella frase «Aiutati che il ciel t’aiuta», che più laicamente interpreto così: noi produciamo endorfine che aiutano a combattere il male e tutti siamo in grado di produrle. Il nostro corpo è intimamente legato alla nostra mente, alla nostra affettività. Ogni giorno il nostro organismo crea e distrugge tumori e nel momento in cui subiamo un crollo delle difese immunitarie, anche per stati d’animo particolari, allora il tumore ha il sopravvento sull’ospite. Potrei raccontare molti episodi che vanno tutti in questa direzione.
Ho acconsentito alla richiesta di Lorenzo Indrimi, ho davvero operato il suo quadro, con pinze, garze e fili, affascinato dall’aspetto rituale, sciamanico di questo trasferimento del male da se stesso a una propria opera. E perché, dopo molti anni di carriera, sono convinto che nelle nostre malattie ci sia qualcosa che ci sfugge.
Come regista, sono stato al gioco perché il mio lavoro mi impone di registrare le cose che avvengono nella realtà: per uno che fa il mio mestiere questa vicenda si è rivelata una rarissima opportunità. Sono un uomo di spettacolo e dunque non mi sfugge l’ambiguità dell’artista, il confine, spesso così labile, tra finzione e realtà. Indrimi ha messo la propria vita a disposizione di una sua opera d’arte, tentando in questo modo una sciamanica via di salvezza.
È la capacità dell’artista di andare fuori di sé, di andare oltre. In questo caso, per riuscire ad attraversare il male, a stanarlo, a narrarlo, facendolo diventare parte di una trama, di una tela vissuta. Crediamo che sia questa la sola chiave possibile per provare a comprendere quanto è successo: nel film si vede un quadro sotto i ferri in una sala operatoria. Ma come chiamare il filmato che abbiamo, tutti assieme, realizzato: documentario, corto, docufilm, fiction, realtà?
È soltanto la prova documentata di un evento realmente accaduto. La prima proiezione de «Il quadro malato» avrà luogo mercoledì durante «Il bosco di Eros», il festival estivo dell’Accademia filarmonica romana dedicato quest’anno al dio dell’Amore.
Il giorno prescelto è quello di Eros/ Thanatos, Amore e Morte. Prima e dopo il filmato, ascolteremo una trascrizione per bayan, la meravigliosa fisarmonica russa, dell’Adagio da «La morte e la fanciulla» di Franz Schubert. Anche quella musica è una vicenda di vita e di malattia.
Subito dopo vorremmo che il nostro amico Lorenzo Indrimi si decidesse, dopo sette anni, a sottoporsi a una Tac.
* Massimo Martelli, chirurgo oncologo, primario all’Ospedale Forlanini di Roma, e Sergio Rubini, regista e attore, sono legati da grande amicizia e hanno voluto firmare assieme questo articolo