Francesca Paci, La Stampa 24/6/2013, 24 giugno 2013
ISRAELE RISCOPRE LA PAURA NEL GOLAN
Nei ventitré anni trascorsi a Kidmat Zvi, tra i mango e le mele del Golan, Michael Raikan non ha mai guardato con apprensione al confine siriano distante un tiro di schioppo. Oggi non passa giorno senza chiedersi se non sarebbe meglio lasciare il consiglio comunale e portare altrove i suoi quattro figli: «L’eco dei colpi è così forte che non distingui più le nostre esercitazioni militari, come quelle dei giorni scorsi, dagli scontri tra l’esercito di Assad e i ribelli. Ci stiamo preparando al peggio: abbiamo aperto e pulito i rifugi antiaereo, abbiamo fatto scorte di acqua, cibo in scatola e torce, a scuola i bambini vengono addestrati all’emergenza, iniziamo a pensare di poter diventare una Sderot del Nord». Diversamente dalla cittadina al confine con Gaza attrezzatasi suo malgrado a vivere sotto i razzi di Hamas, i kibbutz disseminati sulle alture occupate dal Israele nel 1967 e annesse unilateralmente nel 1980 hanno sempre goduto di una tranquillità tale da attrarre 3 milioni di turisti l’anno. Poi, dopo settimane di tensione crescente, la guerra è arrivata nel cortile di casa.
«Combattevano proprio qui, c’erano decine di carri armati», racconta la 40enne Dalia Amos indicando la terra bruciata a ridosso di Quneitra, l’unico varco tra Siria e Israele, dove il 6 giugno le forze di Damasco hanno respinto l’opposizione armata. Sullo sfondo si vede il lago artificiale da 12 milioni di metri cubi d’acqua voluto da Hafez Assad contro un’eventuale invasione israeliana. In realtà, nonostante i ricorrenti anatemi, il confine tra i due Paesi non è mai stato un problema né per la Knesset né per la missione Undof istituita nel 1974 dalle Nazioni Unite a difesa della pace. Venti giorni fa però, dopo essere stati raggiunti dalle granate, i 360 Caschi Blu austriaci hanno deciso di fare i bagagli: 60 sono già partiti.
«È la prima volta che i tank siriani si spingono tanto avanti, tecnicamente avrebbero violato la linea del cessate il fuoco ma a meno di essere attaccati direttamente la nostra politica è di non intervenire», spiega il graduato responsabile dell’avamposto militare israeliano Mavar Quneitra. Tra le torrette mimetiche dov’è in servizio dal 2009 e l’edificio di mattoni bordò sormontato dal tricolore rosso, bianco e nero di Damasco ci sono poche decine di metri e un massiccio cancello elettronico attraverso cui, con insolita sollecitudine, fanno avanti e indietro i blindati Onu. Secondo fonti vicine al contingente internazionale i ribelli non puntavano al controllo del valico ma volevano distogliere i lealisti dall’offensiva al Nord.
Il maggiore Adam, druso come 20 mila dei 44 mila abitanti del Golan, non era ancora nato quando il padre incrociava le armi con i siriani nella guerra del Kippur: «Per il momento il conflitto resta di là, i colpi di mortaio, compresi quelli dei giorni scorsi, sono caduti da questo lato per sbaglio e noi ci siamo limitati a fortificare i 90 km di confine con una barriera a sensori che sarà ultimata a breve. Certo, stavolta sono arrivati così vicino da farci indossare i giubbotti antiproiettile, ho visto i ribelli sostituire per poche ore la bandiera del regime con la loro, abbiamo soccorso dei feriti... (uno è morto ieri ndr)». Sarà guerra totale? La risposta è lo stesso «no comment» riservato alla staffetta tra gli austriaci e i peacekeeper delle Figi: in tema di sicurezza Israele è abituato a far da sé.
«Il varco di Quneitra viene usato solo dai drusi che vanno a studiare in Siria, attualmente ce ne sono 42, o da chi deve sposarsi, ma è un simbolo importante per Damasco perché questi drusi sono fedeli al regime» continua l’ufficiale. La protagonista del film «La sposa siriana» affronta il mattino del matrimonio come il peggiore della sua vita, poiché convolando a nozze col cugino siriano conosciuto per lettera non potrà più tornare a trovare la famiglia in Israele.
I veicoli militari che s’incontrano lungo le strade costeggiate da vigneti e trattori rivelano il livello dell’allerta israeliana. Sebbene la crisi siriana abbia spezzato l’asse tra Damasco, le milizie libanesi di Hezbollah e i palestinesi di Hamas, ha saldato quello sciita facente riferimento a Teheran.
«Siamo alla seconda fase del conflitto a bassa intensità, quella in cui fronteggi un nemico senza profilo e dunque molto diverso da Hamas o Hezbollah. La terza fase? È facile da immaginare» ragiona il generale Joshua Ben Anat, ex comandante della riserva e consulente dell’esercito, durante un forum organizzato dall’Europe Israel Press Association. Nel ‘73 ha combattuto proprio qui dove ora potrebbero essere stanziati i figli: «Israele è in un vicolo cieco, che dovessimo trovarci accanto la superpotenza iraniana con Hezbollah rafforzato dal training bellico o lo jihadismo sunnita c’è il rischio di rimpiangere Assad. Per questo non possiamo permetterci di scommettere come fa Washington sostenendo una parte dei ribelli: noi aspettiamo, reagiremo solo in caso di un cambio di equilibrio strategico». È già successo nel 2013, tre raid su obiettivi siriani mai smentiti dal premier Netanyahu.
Sono passati sei mesi dalle elezioni in cui gli israeliani hanno premiato i candidati outsider Yair Lapid e Naftali Bennett che parlavano di carovita anziché di sicurezza. «La nostra coscienza è mutata», ammette Michael Raikan osservando la barriera che, pioniera, è stata costruita preventivamente. Damasco dista appena 60 km da qui e oltre quelle colline c’è la terza divisione siriana. In mezzo, gramigna tra le crepe dell’opposizione, cresce al Qaeda. Chiunque si ricordasse a un tratto dell’antico nemico sionista avrebbe gioco facile: la prossimità è così invadente da escludere la sirena, l’allarme qui è il primo missile che centra il bersaglio.
Quando e da chi proteggersi? La domanda è concreta: pochi in Israele dubitano di dover prima o poi fare i conti con il caos siriano. In un modo o nell’altro. «Tre settimane fa abbiamo “ricevuto” un razzo dal Libano ma il mittente non era Hezbollah bensì un gruppo, probabilmente palestinese, intenzionato a coinvolgerci per obbligare il partito di Dio a distogliere l’attenzione dal suo sostegno a Damasco», chiosa il generale Ben Anat. Da qualsiasi angolo lo scruti l’orizzonte è nero, gli abitanti del Golan mettono i sacchi di sabbia davanti alle finestre.