Sergio Rizzo, Corriere Economia 24/6/2013, 24 giugno 2013
QUEL PECCATO ORIGINALE
Lo scorporo della rete «assicura la fornitura di prodotti e servizi pienamente equivalenti, così da incentivare le dinamiche concorrenziali». Questo ragionamento del presidente esecutivo di Telecom Italia, Franco Bernabè, non fa una grinza. Cosa c’è di meglio per garantire parità di condizioni a tutti gli operatori che rendere neutrale l’infrastruttura, affidandola a un soggetto terzo?
È la medesima logica che ha ispirato la separazione della rete elettrica dall’Enel e dei gasdotti dall’Eni. Piuttosto, ascoltando le parole di Bernabè, non si può non ripensare alle polemiche furiose che sette anni fa investirono Angelo Rovati, allora consigliere del premier Romano Prodi, autore di una proposta per certi versi non troppo diversa. Ci fu chi gridò allo scandalo, perché si volevano di nuovo statalizzare i telefoni: l’idea, ricordiamo, era di far intervenire la Cassa depositi e prestiti per creare una società della rete da quotare in Borsa. E chi al contrario metteva il relazione quel progetto con l’elevato indebitamento del gruppo telefonico: probabilmente senza andare troppo lontano dalla realtà dei fatti.
Di sicuro, la separazione della rete in un soggetto terzo avrebbe portato tanti soldi nelle casse di una Telecom fortemente esposta con le banche, al tempo stesso garantendo la neutralità dell’infrastruttura a vantaggio della concorrenza. Il vero problema riguardava l’eventuale natura pubblica dell’acquirente. Il che poteva prefigurare effettivamente una privatizzazione al contrario.
Sappiamo com’è andata a finire: Rovati si dimise dall’incarico e il progetto di scorporo della rete restò confinato alla dimensione di pura ipotesi.
Nella bufera che allora lo travolse, al consigliere di Prodi andava comunque riconosciuto un merito. Quello di aver reso evidente il peccato originale della privatizzazione di Telecom Italia. Va detto subito che se in questo Paese sono stati fatti (timidi) passi avanti sul terreno della concorrenza, se il peso dello Stato nell’economia si è ridimensionato e se il mercato si è (sia pur limitatamente) sviluppato, è merito delle privatizzazioni. Basterebbe ricordare che ancora all’inizio del 1993 le aziende pubbliche rappresentavano il 70 per cento della capitalizzazione della Borsa italiana. Ma se nella vicenda delle privatizzazioni qualcosa è andato storto, l’esempio non può che essere Telecom Italia.
Il governo Prodi cede quindici anni fa ai privati la maggioranza della propria compagnia telefonica, allora praticamente senza debiti, attraverso un collocamento. L’incasso è apparentemente sontuoso: 26 mila miliardi di lire. Ma nessuno solleva in modo convincente il vero problema nascosto nell’operazione. Perché ai privati non si vende soltanto l’operatore telefonico ma anche la rete fisica. Fatto piuttosto singolare, considerando che la privatizzazione doveva promuovere anche la concorrenza. Il che, a rigor di logica, avrebbe suggerito di scorporare la rete (pagata fra l’altro nei decenni dagli utenti con le bollette) allo scopo di assicurare parità di accesso a tutti i soggetti. Il fatto è che l’infrastruttura rappresenta l’asset più importante, e senza quella la privatizzazione non garantirebbe certamente lo stesso introito. L’Italia sta cercando di agganciare la moneta unica ed è essenziale mostrare ai partner europei che si fa di tutto per abbattere drasticamente il debito pubblico. L’incasso è quindi decisivo. L’operazione prevede la costituzione di un nocciolino duro controllato con una quota irrisoria (lo 0,6 per cento) dal gruppo Ifil.
Un annetto dopo, la scalata in Borsa. I capitani coraggiosi comprano con i debiti bancari che poi caricano su Telecom Italia. Passano un paio d’anni ed ecco un secondo passaggio di mano. Con altri debiti, che finiscono sempre sull’azienda. Il risultato è che i privati fanno un sacco di soldi, considerando che a ogni passaggio gli azionisti rilevanti hanno intascato ricche plusvalenze. Mentre l’azienda si ritrova sulle spalle un macigno bestiale.
Un peso simile, ovvio, non può non condizionare gli investimenti proprio sulla rete, come possono oggi verificare tutti gli utenti. E siccome prima o poi i nodi vengono al pettine, lo scorporo che doveva essere fatto quindici anni fa diventa ora decisivo. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire. Vogliamo anche credere a Bernabè, quando in Senato afferma: «Non chiediamo soldi pubblici». Perché se fosse la Cassa depositi e prestiti, come anche si vocifera, a dover rilevare la rete di Telecom Italia, assisteremmo a uno spettacolo davvero incomprensibile. Quello dello Stato che dopo aver privatizzato un’azienda se ne ricompra metà a un prezzo, ne siamo certi, non punitivo per il venditore.
Sarebbe la ciliegina sulla torta di una storia che sembrava cominciata bene, ma sta finendo molto meno bene. Da quando è stata avviata la stagione delle privatizzazioni e della vendita del patrimonio pubblico, che doveva servire ad abbattere il nostro pauroso debito pubblico, questo è aumentato di 23 punti percentuali sul Prodotto interno lordo.