Antonio Carioti, Corriere della Sera 25/6/2013, 25 giugno 2013
Aveva lasciato l’insegnamento pochi mesi fa, in ottobre, esprimendo in un’intervista al «Corriere del Veneto» la sua amarezza per un’università ridotta a «luogo sommerso dagli impegni burocratici»
Aveva lasciato l’insegnamento pochi mesi fa, in ottobre, esprimendo in un’intervista al «Corriere del Veneto» la sua amarezza per un’università ridotta a «luogo sommerso dagli impegni burocratici». Ancora più aspri i suoi giudizi sulle forze politiche: Il Movimento 5 Stelle «schiuma che distilla il peggio della società»; il Pd «floscio»; il Pdl partecipe della «corruzione morale»; la Lega «fenomeno di degrado della vita collettiva». Non aveva peli sulla lingua lo storico veneto Silvio Lanaro, scomparso all’età di settant’anni in quella Padova del cui ateneo era stato a lungo uno dei docenti più apprezzati. D’altronde anche i suoi libri, per esempio il pamphlet L’Italia nuova (Einaudi, 1988), non risparmiano osservazioni taglienti. Il più noto, la Storia dell’Italia repubblicana pubblicata da Marsilio nel 1992, non si limita certo a una fredda esposizione dei fatti, ma prende di petto i difetti del carattere nazionale e le insufficienze dei governanti, con una prosa avvincente che si addentra nella politica come nel costume, nell’economia, nella vita culturale, nelle comunicazioni di massa. Uomo dichiaratamente di sinistra (pesanti e per molti versi ingiuste certe sue critiche ad Alcide De Gasperi, a Giovanni Guareschi, a Leo Longanesi), Lanaro aveva tuttavia sempre insistito sull’importanza dell’idea di nazione, il cui declino gli pareva forse il maggiore handicap di cui aveva sofferto l’Italia dopo il 1945. A determinare il fallimento della solidarietà nazionale negli anni Settanta, scrisse per esempio, era stata in primo luogo «la totale assenza del soggetto della "solidarietà", cioè la "nazione"». Non a caso del resto la raccolta di saggi in suo onore pubblicata l’anno scorso da Donzelli s’intitola Pensare la nazione. Lanaro era partito dallo studio della provincia profonda, con il saggio Società e ideologia nel Veneto rurale (Edizioni di storia e letteratura, 1976) e poi aveva curato il volume Il Veneto nella serie dedicata alle regioni della Storia d’Italia Einaudi (1984). Ma tra le due opere, nel 1979, aveva pubblicato Nazione e lavoro (Marsilio), forse il suo libro più innovativo, nel quale sottolineava il rilievo che il mito della modernità industriale aveva avuto nella costruzione dell’identità italiana. Un testo per certi aspetti «scandaloso», all’epoca molto discusso, poiché individuava nel fascismo il «punto d’approdo», deplorevole finché si vuole, che la borghesia aveva dato a un reale processo di sviluppo. Severo con le classi dirigenti italiane, alla perpetua ricerca di traguardi epocali per nascondere un’endemica incapacità di «governare in ordinaria amministrazione», Lanaro era addirittura spietato con l’estremismo verbale degli intellettuali «operaisti» e sedicenti rivoluzionari. Il divario tra parole e comportamenti è un tema ricorrente dei saggi raccolti nell’ultimo volume uscito a sua firma, Retorica e politica (Donzelli, 2011). E fra le tante retoriche che non lo convincevano c’era anche quella europeista. Il suo libro Patria (Marsilio, 1996) termina affermando che di una cultura europea unitaria «non si può onestamente parlare» e che «le nazioni hanno ancora un lungo cammino davanti a sé». Quasi una professione di fede.