Paolo Mieli, Corriere della Sera 25/6/2013, 25 giugno 2013
Biografia di Leandro Arpinati
C’è un altro difficile 25 luglio nella vita di Benito Mussolini. Un 25 luglio nove anni prima di quello del 1943, nel corso del quale sarà sfiduciato dal Gran Consiglio del fascismo e fatto arrestare dal re Vittorio Emanuele III. È quello del 1934, in cui fu lui a decidere di mettere agli arresti (il giorno successivo) un’illustre personalità del regime: Leandro Arpinati, fascista della prim’ora, padrone del partito a Bologna e successivamente potentissimo sottosegretario all’Interno. L’influente uomo politico — ricostruisce Brunella Dalla Casa nell’affascinante libro Leandro Arpinati di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — era caduto in disgrazia già da un anno. Precisamente dal 27 aprile del 1933, quando Mussolini lo aveva ricevuto per comunicargli seccamente che il segretario del Partito nazionale fascista, Achille Starace, non si sentiva più «in grado di collaborare» con lui e per rinfacciargli di aver sparlato della sua famiglia. Arpinati aveva immediatamente scritto un breve biglietto a Starace: «Se avessi avuto bisogno di un elemento per giudicare della bassezza degli uomini, tu me l’hai offerto; sei un mentitore e un vile». Questi era sul punto di sfidarlo a duello, ma Mussolini lo fermò, scrivendo a sua volta un altrettanto breve messaggio ad Arpinati: «Si è determinata una situazione per cui ti prego di rassegnare le tue dimissioni dalla carica di sottosegretario». E Arpinati obbedì su due piedi. «Con immutata devozione», scrisse
Finiva quel giorno la vita politica dell’uomo di Civitella, che da sindacalista a Torino era stato dapprima socialista, poi anarchico rivoluzionario: una carriera che era passata di successo in successo. Nel 1910 era avvenuto l’incontro tra lui diciottenne e Mussolini, che allora di anni ne aveva 27, all’epoca segretario della sezione socialista di Forlì e direttore del settimanale «La Lotta di Classe». Da quel momento Arpinati avrebbe seguito Mussolini in ogni passaggio della sua vita (o quasi), a cominciare da quello che lo portò a essere uno dei più importanti leader interventisti (anche se poi non prese parte attiva alla guerra, essendo stato «reclutato», tra il 1915 e il 1918, come «ferroviere elettricista» alla stazione di Bologna). «L’interventista non intervenuto», lo avrebbe definito sarcasticamente il suo avversario Giorgio Pini, precisando che negli anni di guerra la sua missione speciale era stata quella di accendere le luci la sera e spegnerle la mattina dopo.
Anche l’adesione di Arpinati al fascismo fu in leggero ritardo rispetto ai giorni della fondazione (piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919): fece la sua prima apparizione pubblica a fianco di Mussolini nell’ottobre di quello stesso anno, al Congresso di Firenze. E da quel momento fu il principale organizzatore dello squadrismo nella sua terra, distinguendosi, il 21 novembre del 1920, nella guida dell’assalto a Palazzo d’Accursio, il municipio di Bologna in mano alle sinistre: la spedizione provocò undici morti (tutti socialisti, tranne il consigliere liberale Giulio Giordani) e una sessantina di feriti. Innumerevoli furono nei mesi successivi le aggressioni a parlamentari socialisti prima e comunisti poi, case del popolo, sedi di partito, capilega, treni che trasportavano operai, singoli militanti. Al punto che qualcuno volle scorgere un richiamo nel testo che Mussolini gli inviò per apprezzare il modo in cui era stato ricevuto a Bologna nell’aprile del 1921: «Carissimo Arpinati, permettimi di ringraziarti per le accoglienze trionfali. È anche stato il trionfo della tua fervida attività e di quella dei tuoi amici che mi sono presenti. Ricorderò per sempre le giornate del fascismo bolognese. Ora ti prego di consolidare il movimento, seguendo queste direttive generali: 1) limitare l’uso della violenza allo strettamente necessario e impiegarla cavallerescamente; 2) penetrare nelle campagne».
Quando Mussolini siglò il «patto di pacificazione» con i socialisti, Arpinati si oppose e continuò a fare di testa sua, subendo per questo, verso la fine del 1921, un’emarginazione dalla guida del partito. Ma già agli inizi del ’22 (l’anno della marcia su Roma), Mussolini lo richiamò al suo posto e gli consentì di portare il suo «stile» anche in Parlamento, dove il 9 agosto Arpinati fu fermato mentre era sul punto di esplodere un colpo di pistola contro il deputato comunista Luigi Repossi. In quella estate fu lui stesso oggetto di un attentato a Cesenatico, dove, al suo posto, rimase ucciso il fascista bolognese Clearco Montanari. Fu poi a fianco di Mussolini senza tentennamenti nella crisi successiva all’uccisione di Giacomo Matteotti e in prima fila nella battaglia interna contro l’ala sindacalista del Pnf.
In tutti quegli anni, Arpinati aveva mantenuto un profondo rapporto di amicizia con un avvocato socialista, Torquato Nanni, che, pur senza aderire mai al Partito fascista, era stato anche lui amico di Mussolini, interventista e redattore del «Popolo d’Italia». Circostanze che però non attenuavano l’odio nei suoi confronti da parte dei mussoliniani scalmanati: Nanni era bersaglio fisso di molti fascisti toscani e romagnoli, Amerigo Dumini, Enrico Manica, Umberto Odett Santini, Dino Perrone Compagni. E di Giovanni Bertini, che, nei giorni della marcia su Roma, alla guida di un manipolo di camicie nere lo malmenò e lo sequestrò, dopo aver distrutto il suo studio. Arpinati intervenne per farlo liberare e un movimento, «fascisti Alta Romagna», lo accusò di voler «proteggere i farabutti». Lui rispose dando del «disonesto» a Perrone Compagni e del «camorrista» a Odett Santini, con ciò lasciando una scia di ruggine tra sé e i più intransigenti tra i fascisti tosco-romagnoli. Tracce di questa ruggine si ritroveranno qualche anno dopo, nel novembre del 1925, in alcuni numeri clandestini della rivista «Fiamma», settimanale del fascio imolese, nei quali lo si accuserà di essere «schiavo della plutocrazia meno onesta» e lo si definirà «incapace, dal punto di vista politico e sindacale, di reggere il posto che occupa». Ma Arpinati non si lascerà intimidire e anzi, nel 1927, suggerirà all’amico socialista Torquato Nanni di scrivere un libro su di lui e sul fascismo bolognese, libro che però, pur completato, non vedrà mai la luce per un intervento di Arnaldo Mussolini, buon amico di entrambi. In quel libro Nanni avrebbe dovuto spiegare il perché del successo di Arpinati, che nella seconda metà degli anni Venti divenne l’uomo più potente e osannato di Bologna: divenne comproprietario e consigliere delegato del «Resto del Carlino»; fondò il più grande stadio di calcio d’Italia (il «Littoriale»); attuò la riforma tranviaria con il raddoppio della rete; avviò un piano di costruzione di case popolari, edifici scolastici, pavimentazione della città e fognature; si dedicò a un nuovo piano di illuminazione delle strade, alla costituzione di una scuola superiore di commercio, all’avvio dei lavori per la funivia di San Luca, alla realizzazione dell’ospedale Pizzardi e della Clinica psichiatrica, alla costruzione di un nuovo aeroporto militare e a una quantità di altre iniziative che non ebbe uguale né prima né dopo di lui.
Arpinati si sentiva amato dai suoi conterranei e perciò onnipotente. Il 31 gennaio del 1927, il prefetto di Bologna inviò al ministro dell’Interno una relazione in cui si raccontava che, a un banchetto con Torquato Nanni, il ras gli offrì su un vassoio «quelle stesse manette colle quali nella giornata della marcia su Roma la squadra di azione fascista di Civitella ebbe a trarlo in arresto». Un gesto di sfida che, ancora secondo il prefetto, avrebbe potuto «incoraggiare elementi dissidenti sempre pronti a insorgere e a stringersi attorno a lui per muovere battaglia alla Federazione provinciale fascista»; talché molti componenti della Federazione si erano mostrati «indignati e allarmati».
Anche sulla base di rapporti di questo tipo, Mussolini aveva iniziato a diffidare dello strapotere locale di Arpinati e nel settembre del 1929 lo aveva chiamato a Roma come sottosegretario all’Interno. Ma a Roma Arpinati aveva legato con pochi, continuando ad avere la testa e il cuore nella sua Bologna. Prendeva atteggiamenti in aperta dissonanza con il regime: contro i Patti lateranensi, contro Giovanni Gentile per la gestione della Treccani, a favore di provvedimenti di clemenza nei confronti di alcuni antifascisti, contro il segretario del Pnf Giovanni Giuriati e (errore che, come si è visto all’inizio, gli fu fatale) contro il suo successore Achille Starace. Per di più qualcuno giurava di avergli sentito pronunciare parole come queste: «L’Italia non è un feudo della famiglia Mussolini!»; «A Bologna posso fare tutto quello che voglio perché Mussolini l’ho in pugno». Annotò Giovanni Giuriati: «Il tono che usava per parlare a Mussolini non somigliava affatto a quello in uso da parte dei collaboratori del Duce, me compreso». Da lui ispirato, Leo Longanesi, suo buon amico, sulle pagine della rivista «L’Assalto» guidava una fronda anticoncordataria contro le pretese dell’Azione cattolica.
In un discorso del 9 agosto 1931 a Pistoia, Arpinati si dichiarò liberista e denunciò quella che, nel nome del corporativismo, gli appariva come una «concezione filistea, piccolo borghese della Rivoluzione fascista da respingere alla stregua di una parodia e di un insulto». La sua presenza a Bologna il 14 maggio del 1931, allorché Arturo Toscanini fu aggredito da un gruppo di fascisti per essersi rifiutato di far suonare «Giovinezza» e la «Marcia reale», fu infine sfruttata per muovergli l’accusa di aver sottovalutato la portata degli eventi. E ciò fu in qualche modo provocato dalla circostanza che lo stesso Toscanini, in una lettera a Mussolini, volle precisare di essere stato ingiuriato e colpito «da una masnada inqualificabile essendo presente in Bologna il sottosegretario all’Interno». Come se tra le due cose ci fosse un rapporto di causa ed effetto. Stavolta Longanesi, che aveva approvato lo schiaffo a Toscanini, fu costretto a dimettersi da «L’Assalto». Al che Arpinati, senza darsi per vinto, iniziò una battaglia per far promuovere un altro giornalista amico, Mario Missiroli, alla direzione del «Resto del Carlino» costringendo il partito a rilasciargli la tessera. E fu questo il pretesto con il quale Starace mosse all’attacco contro di lui, ottenendone la testa da Mussolini.
La storia avrebbe anche potuto concludersi qui, nel 1933. Avrebbe potuto se solo Arpinati si fosse dato per vinto. Probabilmente qualche anno dopo Mussolini lo avrebbe anche recuperato. Ma Arpinati non si rassegnò e conobbe una vita politica di altri dodici anni, nel corso dei quali si allontanò sempre più dal regime mussoliniano e si avvicinò per gradi ai lidi dell’antifascismo. Fece l’errore di tornare subito a Bologna. Ed ecco che un informatore di polizia segnalò: «Adesso si dice che Arpinati è veramente silurato e pedinato dalla polizia, perché si teme che voglia costituirsi nel bolognese una roccaforte come quella di Farinacci a Cremona». E in effetti ogni occasione era buona per raccogliere attorno a sé gli «arpinatiani», compreso il funerale di un cognato, il 25 marzo del 1934. Passato qualche tempo, Mussolini decise di farlo arrestare. Per l’arresto, racconta Brunella Dalla Casa, «si fece ricorso a uno spiegamento di forze spropositato, difficilmente spiegabile con la facilità di un’operazione che, se opportunamente preventivata e controllata, avrebbe potuto essere eseguita con poche unità»: furono mobilitati un’ottantina di carabinieri e due torpedoni di agenti di pubblica sicurezza! E, a riprova del clima psicologico in cui viveva la famiglia di Arpinati, la moglie avrebbe detto agli agenti che lo arrestavano: «Non fategli fare la fine di Matteotti». A Bologna furono diffuse ad arte voci che parlavano addirittura di un suo coinvolgimento, con il ruolo di «organizzatore occulto», nell’attentato a Mussolini dell’ottobre 1926 a opera del giovane Anteo Zamboni. Ad Arpinati fu inflitta la pena (massima) di cinque anni di confino di polizia, dapprima nell’isola di Lipari, poi nella sua villa di Malacappa. Di qui, con l’aiuto di Torquato Nanni, prese a tessere la tela dei rapporti, dapprincipio cauti poi sempre meno, con gli antifascisti. Quando nel 1940 l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale, chiese, a 48 anni, di arruolarsi. Glielo permisero, ma come soldato semplice, talché fu l’unico soldato semplice nato nel 1892 della sua unità. Man mano che si avvicinava il 25 luglio del 1943, la caduta del fascismo, cercò contatti con Bonomi, De Gasperi, Sforza e persino con il re, che glieli rifiutò perché lo considerava «troppo notoriamente antifascista». Ivanoe Bonomi, invece, glieli accordò su intercessione del socialista Enrico Bassi, e gli rivelò i piani di cui era a conoscenza. In seguito ebbe relazioni con due congiurati del 25 luglio, Dino Grandi e Galeazzo Ciano.
Quando giunse il giorno fatidico della caduta di Mussolini, si pronunciò contro l’incarico al maresciallo Badoglio e la prosecuzione della guerra a fianco dell’alleato tedesco. E si sorprese assai che le autorità postfasciste lo tenessero nel conto di un profittatore di regime e disponessero il sequestro dei suoi averi, a cominciare dalla villa di Malacappa. Ma non fecero in tempo. L’8 settembre fu l’armistizio, l’Italia si divise in due, Mussolini fu liberato dai tedeschi da Campo Imperatore e a Rocca delle Caminate, dove trovò rifugio, volle incontrare Arpinati per chiedergli di unirsi a lui. Arpinati rispose di no e, ancorché vivesse a Bologna, rifiutò di schierarsi dalla parte della Repubblica sociale italiana. Qualche tempo dopo Mussolini, conversando con il giornalista Giovannini, così disse di lui: «Per ciò che riguarda Arpinati, la colpa è mia. Se non ci fossimo incontrati, sarebbe probabilmente rimasto un buono e innocuo anarchico. Si era trasformato in un cattivo fascista e ora è liberale, in ritardo di cinquant’anni. Mi dicono che treschi coi partigiani. Non so se spera in qualcosa; in tal caso non ha capito niente».
Quel «mi dicono» di Mussolini corrispondeva al vero. Arpinati «trescava», eccome, con i partigiani, nonché con movimenti antifascisti come l’Unione dei lavoratori italiani di Giusto Tolloy. E anche con gli Alleati. Ebbe un incontro con il generale Philip Neame, che però non ne ricavò una buona impressione e lo considerò un «tipico boss politico», «prodotto del regime fascista», animato «dal desiderio di tenere il piede in due scarpe». Torquato Nanni, nel frattempo, dopo aver subito anche lui anni e anni di confino (a Lanusei, in provincia di Nuoro), adesso si vedeva riconoscere i titoli del suo rango di socialista e organizzava un gruppo resistenziale nella valle del Bidente. Ma i fascisti della Rsi avevano fatto ripetute irruzioni nella sua casa, costringendolo a cercare rifugio nella villa di Arpinati a Malacappa (la figlia Giancarla Arpinati ha parlato di questa stagione in Malacappa. Diario di una ragazza 1943-1945, pubblicato dal Mulino). Si era così ricostituito il loro antico sodalizio e i loro contatti con gli antifascisti si intensificarono sempre di più. Con l’azionista Bruno Angeletti, con l’ex ufficiale Riccardo Fedel («Libero»), con i socialisti Enrico Bassi e Clodoveo Bonazzi, con il popolare Fulvio Milani, con Silvio Corbari, vicino al Pci. A proposito del Partito comunista, Giovanni Martini, catturato a Bologna il 1° dicembre del 1944 e rinchiuso nella caserma delle Brigate nere di via Borgolocchi, prima di essere fucilato (il 15 dicembre), dichiara ai suoi torturatori che Arpinati li aveva traditi e già da un anno aveva presentato domanda di iscrizione al partito della falce e martello. Ma, avverte Brunella Dalla Casa, «le condizioni in cui queste dichiarazioni furono fatte non consentono di dare loro alcun valore probatorio». Arpinati, del resto, continuava a dichiararsi anticomunista e il Pci era assai diffidente nei suoi confronti. Il comunista Luigi Gaiani ricorda di aver saputo da un compagno di partito, Umberto Ghini, che nel febbraio del ’44 Arpinati aveva offerto cento quintali di farina alle organizzazioni comuniste e il partito aveva ordinato loro di non accettare la donazione. Ma Arpinati, man mano che trascorrono i mesi, si impegna sempre di più a favore della Resistenza. Scriveva di lui Tonino Spazzoli, che gli aveva reso possibili alcuni dei numerosi abboccamenti con gli antifascisti della sua terra: «Leandro desta l’attenzione, l’ammirazione di tutti i sani, cioè i galantuomini, politici e non. Aspettano una parola sua, desiderano un consiglio, invocano l’intervento. Tira avanti come può, difendendosi un po’ da tutti e cercando solo di risparmiare sangue che qua scorre troppo per la cattiveria, l’incomprensione di tanti. Ed è riuscito a salvare molte persone oltre che dalle prigioni anche, con la sua autorevolezza, da più brutti guai». Qualcuno — ma in merito le testimonianze non sono univoche — pensa anche di offrirgli il comando di una banda partigiana. Ma lui rimane a Malacappa, nonostante l’amico giornalista Mario Missiroli gli dica che è imprudente restare in quel posto. Lì, la sua stessa villa si trasforma in una piccola centrale della Resistenza: vi sono nascosti «Augusto» e «Gigi», due giovani dell’Intelligence inglese a cui ha dato riparo, il «dottor Bernardo» (l’azionista Dino Zanobetti) e molti sfollati. E ovviamente l’amico di una vita, Torquato Nanni. Che quando giunge il giorno della liberazione (qui 72 ore prima che a Milano) lo abbraccia ed esulta: «Leandro, ce l’abbiamo fatta!»
Fatta… In quel momento, scrive Brunella Dalla Casa, Arpinati «era forse convinto di dover affrontare una fase giudiziale, per il suo passato di gerarca fascista e per le accuse di profitti di regime che già gli erano state intentate durante il periodo badogliano, ma riteneva anche che il suo allontanamento ormai più che decennale dal potere fascista e il rifiuto da lui opposto al richiamo di Mussolini, e anzi l’appoggio dato in più occasioni, direttamente e indirettamente, alla Resistenza e all’opposizione antifascista lo avessero ormai emancipato dal suo passato politico e assicurato contro possibili rappresaglie e vendette». Ad ogni buon conto, poi, Arpinati «si fidava delle rassicurazioni raccolte negli ambienti della Resistenza e del Cln». Ma all’improvviso la mattina di quel 22 aprile 1945, mentre tutto procedeva nella più assoluta tranquillità, si presentò alla villa un furgoncino dell’Unione nazionale di protezione antiaerea, da cui scesero quattro uomini e due donne. Chiesero di Arpinati. Nanni, che domandò loro di dire chi erano e a nome di chi fossero in quel luogo, fu colpito alla testa con il calcio di un mitra. A quel punto Arpinati si fece avanti e fu ucciso su due piedi. Dopodiché, prima che i responsabili lasciassero in fretta la scena del delitto, anche Nanni, che giaceva a terra svenuto, fu ammazzato con un colpo dietro l’orecchio. Una ragazza del commando urlò che quell’assassinio a freddo era stato compiuto per vendicare l’uccisione del proprio padre. Chi fossero quei sei, non si è mai saputo. Quello stesso giorno la radio diede notizia della fucilazione del «gerarca fascista» e comparvero a Bologna manifesti che così annunciavano l’avvenuta esecuzione: «Arpinati ucciso a furore di popolo». Qualche giorno dopo, l’VIII armata annunciò l’uccisione di Arpinati e del suo «segretario» (sarebbe il socialista Torquato Nanni) da parte di «patrioti». Ma i giornali locali, tra cui il «Corriere dell’Emilia» — che aveva momentaneamente preso il posto del «Resto del Carlino» —, ignorarono l’episodio.
La famiglia di Arpinati restò attonita. Fu il figlio di Nanni, Torquato jr, a non darsi per vinto e a chiedere lumi sull’uccisione del padre. Le indagini furono affidate a un commissario che già era stato fascista e che non venne a capo di niente. Fu messa in giro la voce che si era trattato di un regolamento di conti di fascisti fanatici, che avevano voluto vendicare il tradimento del ras romagnolo. Il che avrebbe potuto spiegare perché gli assassini non si fossero fatti problemi a uccidere anche Nanni. Solo nel 1989, in occasione di un convegno promosso dal comune di Santa Sofia sulla figura del proprio cittadino Torquato Nanni, toccò a Luciano Bergonzini riaprire il caso. L’uccisore di quel 22 aprile di 44 anni prima fu identificato in Luigi Borghi, nome di battaglia «Ultimo». Un personaggio irregolare e violento, il cui nome era stato fatto filtrare dal gruppo comunista a cui faceva capo. Quel nome solo, però. Degli altri non si è mai saputo nulla. «Il perché di questa omissione», scrive Brunella Dalla Casa, «rimane oscuro, dal momento che i criteri di identificazione che sono valsi per indicare Borghi avrebbero potuto essere utilizzati anche per individuare gli altri componenti del gruppo, che invece si è preferito lasciare nell’ombra». Per la cronaca, Borghi si macchiò di numerosi altri delitti nel dopoguerra, per questo fu portato in giudizio e condannato (nel 1953) a poco meno di 22 anni di reclusione, che per effetto di condoni si ridussero a sei. Ma niente fu fatto per Arpinati e Nanni. Va detto, afferma Brunella Dalla Casa che «se si analizzano a posteriori le caratteristiche e i contesti delle uccisioni attribuite a Borghi e alla sua banda, l’uccisione di Arpinati (dal momento che quella di Nanni ha l’aria di un "incidente" di percorso) deve aver richiesto, rispetto a quelle, un di più di decisione politica che si stenta ad attribuire alla semplice volontà di un singolo partigiano di un gruppo periferico, per quanto questi possa essere stato un individuo violento, caratterialmente incontrollato e incontrollabile».
Nessun colpo di testa da parte di un gruppetto di disperati, perciò. Ma un’azione ordinata dall’alto, secondo i familiari, che però non sono stati in grado di addurre prove definitive, dal capo partigiano Ilio Barontini. E perché Barontini avrebbe ordinato quella subitanea uccisione di Arpinati e Nanni? Forse per il fatto che qualcuno temeva Arpinati potesse svolgere un ruolo in quello che si annunciava come un tormentato dopoguerra. A questo proposito la Dalla Casa riporta una testimonianza del segretario socialista del Cln bolognese, Verenin Grazia, nella quale si menziona il fatto che «da parte di elementi anticomunisti, al fine di "tenere testa", come dicevano, al socialismo, si fosse prospettata agli Alleati persino la possibilità di riportare alla ribalta l’ex gerarca e ministro fascista Leandro Arpinati, l’uomo che sparse il terrore e il sangue a Bologna e in Emilia, capace di trascinarsi dietro un considerevole seguito di forze contemporaneamente antifasciste e anticomuniste». Del resto, proseguiva Verenin Grazia, «Arpinati era già in contatto con personalità non secondarie del movimento antifascista, presso le quali vantava, come titoli, il dissidio con Mussolini del 1933 e il rifiuto dato ai fascisti repubblichini subito dopo l’8 settembre 1943, quando pare gli proponessero un alto incarico nella Repubblica sociale». In ogni caso il primo ad accorgersi di qualche conto che non tornava in quella vicenda era stato Enzo Biagi, in un reportage pubblicato su «Gazzetta sera» il 24-25 aprile 1947 con il titolo: Arpinati strano gerarca.
Singolare destino quello di Arpinati, conclude Brunella Dalla Casa, «l’essere finito dopo gli onori e gli allori di una prima fulgida stagione politica nel fascismo, in un limbo di silenzio e di opacità destinato a durare oltre un decennio per l’ostracismo decretato contro di lui da Mussolini e da Starace, e anche negli anni a venire, sia per la memoria mai rimossa del suo violento passato sia per l’innominabilità della sua morte, le cui circostanze (inclusa quella della morte di un amico innocente) favorivano un imbarazzato riserbo su tutto, anche sull’ultima fase della sua vita, spesa al di fuori del fascismo e, per molte scelte, contro di esso… In questo consiste l’anomalia permanente di Arpinati, guardato al contempo con sospetto dai fascisti, che lo considerano un traditore e un "voltagabbana", e dagli antifascisti, che non dimenticano il ruolo primario da lui avuto nell’affermazione del primo fascismo e del regime». «Arpinati si illude, perché anche senza saperlo è imbarcato sulla nostra stessa barca, e quando affonderemo noi, verrà a fondo anche lui», aveva confidato Benito Mussolini poco prima di essere ucciso. Di essere ucciso sì, ma qualche giorno dopo che quello stesso destino — come aveva previsto — era toccato a Leandro Arpinati.
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