Filippo Ceccarelli, la Repubblica 25/6/2013, 25 giugno 2013
E l’eventuale risata in una smorfia di vergogna. Il rilievo divampato a livello planetario attorno agli scandali sessuali di Berlusconi vorrà pur dire qualcosa
E l’eventuale risata in una smorfia di vergogna. Il rilievo divampato a livello planetario attorno agli scandali sessuali di Berlusconi vorrà pur dire qualcosa. Altro che gossip! Fin dal 2009 Wikileaks documenta come le cancellerie, a cominciare dal Dipartimento di Stato Usa, erano inquiete per i « wild parties » che debilitavano il premier alleato — e gli stessi berlusconiani della prima cerchia, nel fare le loro confidenze, si mettevano le mani fra i capelli. Dall’autunno del 2010 il bunga bunga ha marchiato a fuoco l’Italia richiamando attorno al caso della giovanissima marocchina Ruby telecamere e curiosità dall’Europa al Maghreb, dal Sudamerica fino all’Estremo Oriente. Quando venne fuori la storia delle sexy-infermiere una tv giapponese ambientò a villa San Martino una specie di manga in 3D con pupazzi che si agitavano con movenze molto orientali, a noi sconosciute. L’anno seguente, in una manifestazione a piazza San Giovanni, arrivarono dall’Ucraina delle gigantesche e rabbiose Femen, con il corpo nudo tinto (e poi screpolato) di bianco rosso e verde, innalzando cartelli che dicevano: «Silvio, che cazzo fai?». Silvio, fino all’ultimo, ha cercato disperatamente di trasformare questa specie di cerimonia sessuale in una faccenda buffa, stralunata, irreale. Una barzelletta, tutt’al più. Nel corso di una delle sue ultime conferenze stampa a Villa Madama, avendo al fianco il leader israeliano Netanyahu, Berlusconi ha approfittato di un quadro di Appiani che raffigurava il Parnaso: «È un bunga bunga del 1811, quello sono io e quell’altro è Apicella». Una volta si è anche permesso di invitare un gruppo di giovani cattolici. Mentre una volta fuori da Palazzo Chigi, nel presentare l’autobiografia del senatore Razzi l’ha buttata in teologia, giacché «nell’aldilà ci sarà anche il bunga bunga», ipse dixit. E vabbè. Nel frattempo le narrazioni orgiastiche accendevano oltre misura la fantasia commerciale e merceologica degli italiani. Per cui insieme a un paio di pornazzi (uno starring Nadia Ma-crì), a un profumo, a un braccialetto «afrodisiaco» e a un’operazione di hacker, il fatidico marchio «bunga bunga» ha battezzato ed è servito a reclamizzare calze da donna, cosmetici, catene di locali, tessuti di cuoio, valigie, merletti, pizzi, lacci, ricami, fruste e anche articoli di selleria. Adesso è arrivato il conto, bello salato. O se si vuole, la catastrofe. Ma con un minimo di buonsenso si può sostenere che Berlusconi, uscito quasi indenne dalle telefonate per le attricette, la scuola quadri delle veline, il caso Noemi, le accuse di Veronica, le foto di Zappadu e poi scampato per il rotto della cuffia dall’affaire D’Addario, pure designato come un «complotto », ecco, questa rovinosa storia di Ruby se l’è proprio andata a cercare. Tutto insomma consigliava prudenza. E invece, come succede quando l’umana debolezza s’accompagna all’impunità megalomane, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. In tempo post-ideologici i vecchi proverbi della nonna risplendono di inaudita potenza. E allora vai con gli expertise di Fede ai concorsi di bellezza, va con i convogli multietnici di Lele diretti in questa o quella magione, vai con le buste del ragionier Spinelli, i graziosi sms dal telefonino di Sara Tommasi («Spero ke krepi con le tue troie»), le mascherate monacali della Minetti, il bacio saffico e la fotto con il letto disfatto, l’affitto, il parco macchine e il chirurgo delle olgettine, le statuette, le pompette, le manette, perfino il laser per la depilazione acquistato per Ruby Rubacuori... Se davvero il bunga bunga, al netto dell’umanità e dell’oscenità, ha segnato un’epoca, i moduli narrativi che l’hanno imposto sono quelli che più italiani non potrebbero essere. La commedia e il melodramma. La commedia con i suoi caratteri di sempre — il vecchio vanesio e infoiato, le servette furbe, gli avidi ruffiani — e quella fantastica risorsa che è lo scambio dei personaggi, per cui la giovane marocchina passa per la nipote di Mubarak e il linguaggio della bella mezzana, una specie di anglo-milanese, richiama quello del cinepanettone e tuttavia, richiamando il «culo flaccido», apre gli orizzonti alla farsa grottesca e insieme tragica. In parallelo, la difesa berlusconiana richiama i moduli passionali dell’opera, la povera fiammiferaria che scappa dalla famiglia povera che le dà miseria e bastonature (ustioni, pure) e solo nel buon magnate trova conforto, ovviamente del tutto gratuito e caritatevole. Non solo, ma il ricco signore — ohi! ohi! povero lui! — è a sua volta infelicitato dalla moglie che l’ha piantato e dalla mamma che gli è morta, per cui ha tanto bisogno di compagnia. E uno si sentirebbe anche cinico a metterla giù in questo modo, ma mentre tutto questo miscuglione sentimentale e farsesco andava in scena si ponevano le premesse della più spaventosa crisi economica, e politica, e istituzionale della storia repubblicana. E c’era pure, in simultanea, il 150° dell’Unità d’Italia, così una volta, inaugurando qualche patriottico mausoleo, il premier ebbe pure l’onta di trovarsi dinanzi un cartello che diceva: «I ragazzi del ‘49 non sono morti per farti fare il bunga bunga». E non è per provincialismo che si richiama un titolo del New York Times, ma quando un giorno si potè leggere « The agony e the bunga bunga » beh, forse quel titolo, quella favola non parlava solo di Berlusconi, ma di un paese che ancora oggi appare smarrito e anche domani chissà.