Gianpaolo Iacobini, il Giornale 22/6/2013, 22 giugno 2013
ECCO L’ITALIA DEI PROCESSI INUTILI CHE FANNO SOLO PERDERE TEMPO
L’Italia? La patria dei processi lumaca. E di quelli che non servono a niente. Che costano più del danno al quale dovrebbero porre rimedio, e che poi finiscono inevitabilmente tutti allo stesso modo: all’italiana.
I dati Ocse dicono molto, ma non tutto. Non raccontano, ad esempio, la storia di Stefan Macahaniuc, un moldavo di 43 anni residente a Curtatone, nel mantovano. Nel 2008 prova a rubare tre lamette da barba in un centro commerciale. Valore commerciale: 2 euro. Per punire quel furto lo Stato ha impiegato cinque anni: in coda ad un processo snodatosi attraverso cinque udienze, a marzo il Tribunale ha condannato il giovane a cinque mesi di reclusione.
Ma con la condizionale. Dunque, non farà neppure un giorno di carcere, mentre l’erario dovrà sostenere le spese di giudizio, che difficilmente riuscirà a recuperare da chi nulla possiede e magari proprio per questo aveva fatto ricorso al furto.
Come il disoccupato romano che agli inizi del 2013 alla sbarra c’è finito due volte in un mese: la prima, per aver portato via da un supermercato un pezzo di pane e una bottiglia di latte, era stato condannato a cinque mesi.
Due settimane dopo, spinto dai morsi della fame, era tornato a prendere una bottiglia d’olio ed un pezzo d’arrosto. E s’è beccato altri sei mesi, con la recidiva. Meglio è andata alla vedova ottantenne che pochi giorni fa a Genova se l’è cavata con due mesi di galera (sospesi): sotto la giacca aveva nascosto pane e biscotti, per un totale di 20 euro.
Ma se bastasse la crisi a svelare i misteri della giustizia made in Italy, il racconto potrebbe considerarsi chiuso. E invece no.
Nulla c’entrava il disagio sociale nella vicenda del diciottenne tarantino nell’agosto del 2009 denunciato per aver trafugato un ovetto kinder dal bancone di un chiosco. Perché fosse riconosciuto peraltro innocente, il Tribunale di Taranto ha impiegato tre anni. Lui, nel frattempo, ha dovuto rimandare l’arruolamento in Marina, poiché imputato. Quasi una barzelletta, di fronte alla storia da romanzo kafkiano ad ottobre salita agli onori della cronaca dalla provincia di Crotone. Corre l’anno del Signore 2004: a Cirò Marina un trentottenne arraffa una gallina dal pollaio del vicino. Strada facendo, s’imbatte nei Carabinieri.
E vai col processo: il proprietario del volatile va in aula a giurare che per lui quella gallina può considerarsi un regalo. Ma la legge è legge: il pennuto si beava all’aria aperta, esponendosi dunque alla fede pubblica. Circostanza aggravante, che trasforma il delitto in reato perseguibile d’ufficio. Per cui avanti col dibattimento. E 8 anni e 18 udienze dopo, inesorabile il verdetto: prescrizione.
Quanto sarà costato il processo del secolo? Per difetto, almeno qualche migliaio di euro. Al pari di tutti gli altri processi analoghi. Troppo, per le finanze pubbliche, al punto che già nella scorsa legislatura un nugolo di senatori aveva presentato un disegno di legge volto ad introdurre nel codice penale ed in quello di rito la non punibilità per irrilevanza del fatto, lasciando alla sola azione risarcitoria la soddisfazione degli interessi delle parti lese.
L’iniziativa s’è fermata in Commissione, ma se pure avesse avuto successo, non avrebbe probabilmente guarito il sistema. Non per intero, almeno: la signora Maria Carletti da Parma nel 1959 aveva prestato 1.000 lire ad una cugina, che a garanzia le aveva rilasciato una cambiale. Mai onorata, mai pagata. Che si fa? Si fa causa, in sede civile. È il 1961. Soltanto nel 2011, mezzo secolo dopo, è arrivata la sentenza.
Con un risarcimento da 1.350 euro ed i discendenti della signora Carletti, ormai passata a miglior vita, adesso impegnati a dar guerra al ministero per quel processo non solo infinito, ma anche inutile o, più semplicemente, all’italiana.