Piero Bianucci, la Stampa 24/6/2013, 24 giugno 2013
Sapevate che alla Columbia University di New York c’è un corso di Ignoranza? Lo tiene Stuart Firestein, che è anche professore di neuroscienze e direttore del Dipartimento di biologia
Sapevate che alla Columbia University di New York c’è un corso di Ignoranza? Lo tiene Stuart Firestein, che è anche professore di neuroscienze e direttore del Dipartimento di biologia. Immaginare come funzioni un corso di Ignoranza porta a paradossi curiosi. L’esame misura quanto si sa sull’ignoranza o quanto si ignora? Per gli studenti è meglio prendere 18 o 30 e lode? Ancora: con quali criteri si organizza un concorso alla cattedra di Ignoranza? Come si forma la commissione? Con docenti di quali discipline? I suoi componenti dovranno essere di chiara fama o precari sfigati? I candidati presenteranno una lista di pubblicazioni scadenti? Vincerà la cattedra chi ha il curriculum peggiore? Messa così non sembra una cosa seria. Invece lo è. Possiamo immaginare la conoscenza come un’isola che cresce in mezzo a un oceano che rappresenta l’ignoranza. All’inizio la scienza era un atollo piccolissimo, oggi è una grande isola divisa in varie regioni: fisica, chimica, biologia, informatica e così via. E si allarga sempre più rapidamente. Ma attenzione: con la stessa velocità si allunga la sua linea di costa. Cioè il confine con l’oceano dell’ignoranza. Dunque, osserva Firestein, il prodotto finale della conoscenza è l’ignoranza. Però, aggiunge, una «ignoranza informata», che si configura come nuove domande, che a loro volta produrranno risposte, cioè conoscenza, e quindi altra ignoranza. Fin qui è tutto abbastanza normale. Socrate insegnò che la vera conoscenza è sapere di non sapere e il cardinale Nicola Cusano (1401-1464) parlava di «dotta ignoranza», intendendo che si può conoscere l’ignoto solo mettendolo in relazione con ciò che già si conosce, ma perché ciò avvenga, occorre avere qualche vaga conoscenza dell’ignoto; solo Dio possiede una conoscenza infinita. È tuttavia necessario un passo ulteriore, e Stuart Firestein lo fa: al di là dell’ignoranza che sappiamo di avere perché è il confine con il conosciuto (la linea di costa dell’isola), bisogna sapere che può esistere qualcosa che ignoriamo di ignorare. È un po’ come se, dalla costa dell’isola, vedessimo soltanto oceano e oceano e oceano: ciò non significa che oltre l’orizzonte non ci siano altri continenti, cioè l’ignoto immerso nell’ignorato. Questa, se volete, è una «dotta ignoranza» di secondo livello. Una meta-ignoranza o, da un altro punto di vista, una meta-conoscenza. Stuart Firestein, da buon americano, non si avventura in ragionamenti così sottili, tipici della nostra filosofia europea. Però coglie il centro del bersaglio: la scienza progredisce tanto più rapidamente quanto più gli scienziati prendono consapevolezza della loro ignoranza e - ancora meglio - del fatto che esiste una ignoranza che ignorano. Oggi quasi tutti i ricercatori lavorano chiusi dentro le soffocanti pareti della specializzazione. Firestein ricorda che nel 2002 «sono stati archiviati nel mondo cinque esabyte di informazioni, cioè quanto basta a riempire la Biblioteca del Congresso Usa trentasettemila volte». Ma dal 2002 «questo dato è cresciuto di un milione di volte». Nessuno potrà mai dominare una tale massa di informazioni neppure nell’ambito della propria disciplina. Figuriamoci che cosa potrà sapere delle discipline altrui. Eppure le cose più interessanti (le scoperte) si fanno sulla frontiere tra scienze diverse. Una dotta ignoranza dovrebbe portare a questa consapevolezza. Se poi si vuole davvero scoprire qualcosa di rivoluzionario, serve la meta-ignoranza: sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare. Ecco perché, nel suo corso alla Columbia University, Firestein invita colleghi fisici, biologi, chimici, matematici, e chiede loro di tenere una lezione su ciò che non sanno. Non contento, ha scritto un libro - Viva l’ignoranza! , ora tradotto per Bollati Boringhieri (pp. 156 pagine, € 14) - dove ha raccolto il suo messaggio e una serie di «case history». Tra le «case history» c’è anche la sua. Incominciò a lavorare come aiuto direttore di scena di una compagnia teatrale e fece carriera fino a diventare regista. A quel punto, senza abbandonare il palcoscenico, si laureò in etologia alla San Francisco State University. Dopo aver indagato sul ruolo dell’olfatto negli animali, poiché il senso dell’odorato è costituito da terminazioni nervose, passò allo studio del cervello, l’organo più misterioso. Un percorso dall’ignoranza totale all’ignoranza che sa di ignorare e sa che potrebbe non sapere di non sapere. Non vorrei però che qualcuno, scoprendo i paradossi di Firestein, giungesse alla conclusione che la scienza sa poco o niente e finisse con lo svalutarla, come tanti oggi tendono a fare. Se così fosse, il rimedio c’è. È il libro di Gilberto Corbellini Scienza (Bollati Boringhieri, pp. 156, € 9): qui troverete risposta a tutte le critiche che una cultura ignorante della propria ignoranza muove alla conoscenza scientifica. Tipo: la scienza è riduzionista e quindi inadeguata a spiegare la complessità del reale, gli scienziati non vanno d’accordo neppure tra loro, la scienza è un’organizzazione di potere, la scienza non genera valori e quindi è sottoposta all’etica, la scienza annulla la soggettività e quindi è sorda ai valori umanistici.... E se fosse vero proprio il contrario?