Aldo Busi, il Fatto Quotidiano 22/6/2013, 22 giugno 2013
LA MIA SFIDA IMPOSSIBILE: RECENSIRE IL RECENSORE
Mi sono detto, “Vinci te stesso! Va’ oltre i tuoi sani e raccomandabili pregiudizi! Perché non leggi per una volta il romanzo di un recensore di mestiere, di un giornalista culturale, di un editor di collana di narrativa che si diletti della più perniciosa delle debolezze col mestiere che fa, scrivere romanzi, scrivere ‘anche lui’, col solo rischio di coprirsi di ridicolo e mettere a repentaglio il suo salario? E poi lo recensisci senza alcuna pregiudiziale malignità tanto per infierire e ne parli bene o male come se fosse scritto da un vivo qualsiasi?”.
Per dire: io leggerei anche un romanzo scritto da Gianarturo Ferrari, ora occupatissimo pensionato Mondadori, la mente editoriale italiana più brillante del secolo scorso, berlusconiana/trasteverina/dalemiana per simpatetico e naturale sentire tanto che ora è, cito, “Presidente del centro per il libro e la promozione della lettura del Consiglio dei Ministri”, uno di quegli enti di indiscussa utilità nazionale che sarebbe un delitto tagliare almeno quanto il dipartimento dell’Università di Rende che si occupa di monitorare l’essicazione della soppressata calabrese e alle cui sopravvivenze sono felice di contribuire con le tasse irrisorie dei miei diritti d’autore. Tanto per dire di un incancellabile ricordo che Ferrari mi ha regalato in tanti anni di calorosa debita distanza insieme: una decina d’anni fa, a Roma, mi disse se volevo fare un salto in un posto, doveva presentare uno dei soliti parallelepipedi natalizi di Bruno Vespa, sala gremitissima, ed ecco che lui con ogni possibile serenità prende la parola e per prima cosa dà dello scrittore al Vespa, il quale incassò con monsignorile aplomb l’epiteto, con me, per l’appunto, nella sala!
Internettiani, giornalisti, finanzieri, politici, critici... sono diventati tutti scrittori
Allora, non sono riuscito nemmeno a stabilire la distinzione non dico tra autore e scrittore, ma almeno tra scrittore e giornalista: poeti, navigatori internettiani, teatranti, giornalisti, finanzieri, politici, critici cinematografici/d’arte, grafici che inseriscono un lettering tra le linee, sceneggiatori, attori, podisti, tronisti, meteorine, presentatori televisivi di brodi di subcultura, turisti, pubblicitari, creativi e parenti in generale sono diventati tutti parimenti scrittori. Unica consolazione: l’editoria sta morendo, e non solo a causa del passaggio al timone digitale, viva l’editoria.
Se fosse pubblicato postumo, dunque, e a coccodrillo conciato, leggerei anche un romanzo di Ferrari, ecco – e ho scelto l’ipotesi più inverosimile, perché lui, come me, detestava chi faceva l’editor all’interno della casa editrice e scriveva in proprio al calduccio della sua scrivania preposta a tutt’altro, Ferrari era il primo a cogliere un patente e inconciliabile conflitto d’interessi, in questo. Quindi, l’unica maniera per me per leggere un romanzo di un giornalista culturale scritto noblesse (poca) oblige all’interno di un sistema di potere che quel potere mai potrà attaccare, pena l’esclusione e il ritorno alle origini più o meno da zolfataro… e se di quel potere non sparla, che lo scrive a fare, un romanzo… è considerarlo morto e sepolto. Mica facile, con uno che si ostina a considerarsi vivo lui per primo: “Ma tenta, tenta l’impossibile, no? Non hai già preso due colombe dello Spirito Santo con una fava? Una volta hai letto persino un libro di Massimo Cacciari che almeno non ha la sfacciataggine di scrivere romanzi!’ Sì, ma perché ho confuso Io sono il Signore Dio tuo (i comandamenti) con Cristo, il vero riformatore sociale di don Luigi Maria Verzé, appena funeralizzato, e se non fosse stato per la mia sorella, cattolica allarmata quanto deliziata al pensiero del fratello sulla via della redenzione, non mi sarei mai accorto che avevo preso cavoli a merenda per verza a colazione e che avevo ormai letto un libro di Cacciari che non aveva scritto lui e quindi, se non entrambi, nessuno dei due.
Come detesto chi scrive romanzi e allo stesso tempo lavora quale editor alla narrativa in una casa editrice, spesso di primaria importanza, così detesto il critico letterario, spesso di una testata di primaria importanza, che, scrivendo romanzi, inevitabilmente sarà pubblicato da una o da un’altra casa editrice di cui avrà recensito, favorevolmente o no non importa, gli autori. Si chiama, per l’appunto, conflitto di interesse, in sé non più bieco di tanti altri cul de sac di un libero arbitrio non incondizionato, ma stride con il mio dettato fondamentale per essere scrittori leggibili da vivi: non avere le spalle coperte, non avere una rete di protezione, non tenere al caldo l’ernia del topo di biblioteca su una poltroncina editoriale, e non frequentare scrittori e intellettuali e giornalisti e pìerre già sistemati, facenti cioè parte del sistema di selezione editoriale e quindi di omologazione a quel vigente giro... e linguaggio, ahi ahi... che fisiologicamente esclude chi non lo rifletta e rappresenti alla virgola.
Più uno è libero, meno sono i rischi di averlo già letto nelle migliaia di cloni
Se vuoi scrivere, non devi avere vincoli di sorta, e già tenere famiglia è spesso un impedimento non inferiore del far parte di una confraternita autoprotezionistica che riconosce solo i simili a sé, e che darà le proprie preferenze non a te, astro nascente dall’orbita ancora follemente ingovernabile e dall’imprevedibile e asistematica rivoluzione... se non sei rivoluzionario, che scrivi a fare… bensì ai pianeti che già le girano attorno e la cui aspirazione è venire assorbiti dalla terra madrina, quindi più piccoli sono prima verranno attratti e inglobati, fagocitati ed espulsi, anche con l’attribuzione di premi, va da sé, ma allora tanto valeva fare i pubblicisti e coniare slogan per il mercato, si guadagna anche di più e partecipi a simposi in oasi da favola nei posti più esotici del mondo che un autore per compulsione verso un impossibile riscatto sociale… o societario se da dipendente dipende da un editore che magari è pure un Presidente di Consiglio… si sogna.
Vuoi scrivere? Liberati, magari anche di te stesso, va’ nel vasto mondo e poi scrivi quello che hai visto e come lo hai visto nelle forme che meglio ritieni adatte non alla pubblicazione, ma alla tua mente forgiante un pensiero alfabetizzato unico, irripetibile, insostituibile, necessario e gratuito come te. E intanto… compreso intanto che leggi almeno diecimila libri dalle rune al compiuto fenicio che ti è contemporaneo… mantieniti facendo tutt’altro, non dare la tua parola come merce di scambio, e per fretta, ansia, disperazione, compromesso non fare mercimonio della sinapsi più bella che ti è capitata di vivere ed essudare: dare un senso anche alla farragine psichica che debilita invece ogni altro umano, intuirla quale humus prezioso di una volontà letteraria indomita, ingovernabile da chicchessia a parte te, non incanalabile se non dalla tua libertà ferma, ostica, intrattabile, disinvoltamente sacrificale.
Insomma, quando devo leggere qualcuno che non sia morto e quindi inderogabilmente perfetto al punto da lasciarmi indifferente se faceva il lacchè o il despota o il mafioso o il direttore di istituto di cultura italiano all’estero, mi chiedo, quanto è libero questo alfabeto? Più è libero, anche se solo a occhio e croce, più è inedito. Perché, fermo restando che si potrebbe discutere su cosa è la libertà tanti millenni quanti ne comporterebbe discutere su cosa è la verità… sulla seconda però ci arriverei prima…, più uno è libero, meno sono i rischi di averlo già letto nelle migliaia di cloni di cui è un’appendice seriale senza fallo, una merlettaia di centrini su cui sistemare la cornice meglio cromata dello stesso caro estinto di cui non te ne frega una pippa. E siccome il cinismo è l’altra faccia dello stesso sentimentalismo d’uso ovvero una forma meglio organizzata della disperazione in cerca di un’ultima via d’uscita, a me, poi, i ghirigori del sensazionalismo che vuota-il-sacco danno non meno ai nervi preposti al godimento di un testo e non mi impressionano più di tanto le cosiddette rivelazioni mai fatte quando era il loro momento, sono tutte uguali, l’ho già scritto decenni fa che una verità tardiva è una menzogna aggiornata. Colpi di scena e misteri svelati troppo compresi nel prezzo di copertina e del passato morto, sepolto e livellato… penso anche ai libri di memorie dei politici, dei finanzieri, dei capitani d’industria che pretendono di “raddrizzare il tiro”, per non parlare della puzza di ghostwriter /SIC: TUTTO ATTACCATO/ che emanano… sono solo pettegolezzi estremi riciclati, non mi procurano un brivido attuale, il palpito di un’imprevista normalità, la bellezza semplice e ogni volta sconvolgente di un’innocenza perseguita, difesa e mantenuta a prezzo della propria vita, la constatazione che vi è talvolta “qualcuno che non è come tutti gli altri”, qualcuno ostinatamente intelligente, ostinatamente innocente. Infine, dovremmo essere tutti grati a Spadolini o a Andreotti perché l’opera più importante e disvelatrice e chiarificatrice della loro produzione verbalizzata che resterà è quella che non hanno scritto.
Un grande romanzo non è mai situato in tempi anteriori a quelli del suo estensore
Ho avuto vari scontri aperti su questo tema in più d’una casa editrice e conflitti insanabili e rotture irreversibili, poiché, avendo a che fare con creativi in proprio che si pensavano scrittori e poeti, non si sapeva mai chi era lo scrittore e chi l’impiegato che doveva tenere conto di avere di fronte uno scrittore neppure quando in sede arrivavo io. Paolo Di Stefano, si sa, è critico letterario e giornalista culturale del Corriere della Sera e scrive romanzi, premiatissimi, vedo. Ancora un quindici anni fa, chiesi a un editore che pubblicava i titoli di una firma illustre nella critica letteraria romanziere neanche tanto en passant e che si lamentava delle vendite pressoché nulle: “Ma perché lo pubblichi, allora?”, “Perché così mi recensisce gli altri”. Mai più tentato da allora di prendere in mano un romanzo di una simile chimera a due penne anche solo per rimetterlo giù.
E dopo tutto questo limpido arrovellamento… in cui ho contemplato la possibilità di entrarci io in un conflitto d’interessi se lo avessi recensito, ma non mi risulta che il recensibile abbia mai recensito un mio titolo, deve avermi fatto un’intervista non so più quando e a che proposito , e di recente mi ha chiesto il permesso di dare la mia mail a una persona a me sconosciuta di cui rispondeva lui, uno che avrebbe insisto per attribuirmi un premio anche lui e ho acconsentito alla svelta per non farmi sentire sbuffare, non gli devo alcun favore, a lui come a chiunque altro… dopo tanti imperdibili puntini sulle mie di i mi sono vinto e sono andato a comprare Giallo d’Avola, del critico letterario e giornalista culturale tuttora vivo Paolo di Stefano, edito da Sellerio, e l’ho letto. Un grande romanzo di Letteratura non finisce mai con una pagina di ringraziamenti; un grande romanzo di Letteratura non è mai situato in tempi anteriori a quelli del suo estensore; un’opera di Letteratura, che non sarà mai un saggio né un’autobiografia né una commedia né un reportage né una o più poesie ma solo e nient’altro che un romanzo, si scontra con la realtà sociopolitica del momento in cui appare, visto che di quel momento e dei suoi protagonisti, sotto le mentite spoglie dei personaggi, narra. Saranno capaci molti a raccontare o rivelare o squarciare i retroscena del potere politico-finanziario di Berlusconi e cento altri tra cinquant’anni, ma avrà lo stesso impatto che se si trattasse delle note spese all’osso, anche se per niente romanzate, di Scilipoti; solo chi ne fosse capace ora, qui e subito, trovando un finale, per quanto metaforico, affabulatorio a qualcosa che non si sa ancora come andrà a finire e di cui è ancora tabù dire apertamente come è iniziato… potrebbe aspirare a essere uno scrittore, anziché restare un autore, e a scrivere un’opera di Letteratura anziché di genere.
Se ci fate caso, più che romanzi di genere non vengono pubblicati e recensiti
Eppure Giallo d’Avola , di Paolo Di Stefano, Sellerio editore, pag. 331, che finisce con una pagina di ringraziamenti, che racconta di un fatto di cronaca successo nel 1954 e i cui protagonisti, a parte alcuni e marginali, sono tutti morti, è un grande romanzo, di genere, ma come considero di genere I promessi sposi (1840, in sintesi) del Manzoni (1785-1873), che se la prende con gli spagnoli del secolo prima allorché se ne guarda bene dal prendersela con gli austriaci del suo momento, e Il Gattopardo (1958) del Tomasi di Lampedusa (1896-1957) che, un po’ superfluamente dopo I Viceré (1894) del De Roberto (1861-1927), che resta l’insuperato capolavoro mai prodotto in Sicilia dopo MastrodonGesualdo (1889) del Verga (1840-1922), ci racconta di una vecchia storia che cambia affinché resti la stessa, sempre ottocentesca anche da novecentesca, invece per esempio della strage di Portella della Ginestra (1947). Se Giallo d’Avola fosse stato pubblicato nei primi anni Sessanta e non un mese fa, non meriterebbe meno considerazione de Il fu Mattia Pascal (1923) di Pirandello (1867-1936) e si potrebbe gridare al capolavoro. Infine, come Alessandro Manzoni avrebbe scritto imperturbabile la sua bella, bellissima Storia della colonna infame (1840) anche durante la rivolta dello stomaco dei moti milanesi del 1898 soppressa nel sangue dal Bava-Beccaris o all’indomani dello sganciamento della bomba atomica su Nagasaki (1945), Paolo Di Stefano non si pronuncerebbe mai neppure sul rapimento di Denise Pipitone prima del 2073. Tuttavia, l’assenza del coraggio che comporta essere uno scrittore non equivale giocoforza alla viltà in qualsivoglia scrivente, e se è vero che anche col coraggio si può scrivere una sòla totale, se non si è scrittori o se non si ha abbastanza autocritica per bruciare un romanzo “abortito sul nascere” come direbbe Alice-Carroll, è altrettanto vero che con la mera acribia autoriale del cronista-romanziere (qui condita da un’ironia sopraffina e un pizzo di espressioni in siciliano di raffinata, necessaria naturalezza, non per fare macchia di colore su un tessuto smorto) che si tiene alla larga da ogni coinvolgimento col presente si può scrivere una narrazione incantevole oltre ogni aspettativa: perché Giallo d’Avola per ambientazione, potente maestria di linguaggi e idioletti e invenzioni strutturali di continui spostamenti tra il già successo e ciò che, già successo, sta per accadere in esiti ribaltati o di nuovo imprevedibili (e a ridosso di una storiaccia che basterebbe fare un clic sul web per vederne immiseriti intreccio, finale e prosieguo), prigioni, isole di confino, odori di struggimento primordiale, vestiti e birignao del tempo in cui uscì Vacanze romane e anche le signore più in vista di Avola adottavano l’acconciatura di Audrey Hepburn, sguardi muti e risolutori di un’azione concordata, sesso, odio per amore negato, personaggi… montanari, parenti, cittadini, giudici, avvocati, giornalisti, carcerati, pastore e “bordellare”, marescialli, carabinieri e il coro dei bambini atterriti dall’orco della montagna che ha ammazzato il fratello di cui si continua a non trovare il cadavere ma a incontrarne il fantasma o il fantomatico doppio… è meraviglioso.
Non riesco a ricordare niente del genere che mi abbia così coinvolto nel puro sollucchero del lettore sempre più avido di pagina in pagina da Bella vita e guerre altrui di Mr Pyle, gentiluomo di Alessandro Barbero e, in sfere più alte e limitrofe per ambientazione e capacità di lasciarsi compenetrare dal linguaggio dei bifolchi montanari senza farne la pantomima del borghese che li fa parlare come sé, di quell’assoluto, divertentissimo e sottovalutato capolavoro che è Fontamara (1933) di Ignazio Silone (1900-1978).
E poi, diamoci una calmata: se ci fate caso, più che romanzi di genere non vengono pubblicati e recensiti, con l’aggravante che mai il censore fa una distinzione tra loglio e grano e spaccia tutto per Letteratura memorabile e persino imperitura. E poi, lo dico per esperienza: a chi mai sta più a cuore la Letteratura? Chi ne produce, chi ne pubblica, chi ne consuma? A che servono i classici del passato se non ne fomentano di nuovi al presente perché, esistessero, l’editoria stessa ci penserebbe lei a buttarli nel cestino della carta straccia prima ancora che si venga a sapere di una simile destabilizzante mostruosità? Meglio la seguente morale che una nostalgia tanto a ritroso da diventare di genere essa per prima: se ricevessi mai, tra gli ormai rari aspiranti romanzieri che inviano a me la loro speranza cartacea, un romanzo scritto bene... scritto, infine, scritto dalla prima parola all’ultima, scritto e basta... come Giallod’Avola farei fuoco e fiamme per farlo pubblicare, e se ci fosse stato un solo romanzo tra gli undici finalisti dello Strega degno di quello di Paolo Di Stefano, forse avrei fatto di tutto per non arrivare in finale lo stesso ma avrei comunque avuto un libro da consigliare per l’estate, a parte ovviamente El especialista de Barcelona, l’unico che consiglio anche per l’autunno.