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 2013  giugno 23 Domenica calendario

SORPRESA, IN NORD COREA SI AFFACCIA IL LIBERO MERCATO

Jeoung Min-jee e Jae-hwa sono una coppia di sposi sulla quarantina, con due figli, originari della pro­vincia di Nampo, sulla costa orientale della penisola coreana. Il padre di Min­jee è un Eroe del Lavoro che, negli an­ni Ottanta, ha ottenuto il permesso di trasferirsi con la famiglia nella capita­le: «Siamo stati fortunati, vivendo a Pyongyang abbiamo evitato gli anni peggiori della carestia», spiega Min-jee, oggi collaboratore della Christian Friends of Korea, una Ong statuniten­se che gestisce diversi progetti in Co­rea del Nord.
Parlare della carestia e delle difficoltà economiche del Paese oggi non è più un tabù. «Anzi, il più delle volte è lo stesso governo ad ingigantire le cifre della povertà e della malnutrizione per ottenere maggiori aiuti internaziona­li », ci dice un funzionario della Croce Rossa. Il Paese, già in continua evolu­zione sociale, politica e strutturale dal 2002, dopo la salita al potere di Kim Jong-un ha accelerato il passo. Le con­dizioni economiche della nazione so­no in miglioramento: «L’emergenza è terminata e le morti per fame sono quasi scomparse», afferma un delega­to della Fao in visita nella nazione, il quale ricorda che, tra il 1995 e il 2011, Corea del Sud, Cina, Stati Uniti e Giap­pone hanno donato complessivamen­te 11,8 milioni di tonnellate di alimen­ti.

La dipendenza dall’estero
Sempre secondo l’organismo interna­zionale, nel 2011 la produzione di der­rate in Corea del Nord è aumentata dell’8,5% rispetto all’anno precedente e nel 2012 l’incremento dovrebbe as­sestarsi attorno all’8%. «Nonostante il totale di cereali lavorati sia salito a 4,66 milioni di tonnellate, ogni anno si de­vono importare quasi 800.000 tonnel­late di cibo per far fronte allo spettro della fame», spiega Hajime Izumi, di­rettore del Centro di Studi Coreani al­la University of Shizuoka, in Giappone. Questa dipendenza, pesantissima alla metà degli anni Novanta, quando il crollo del Comecon aveva privato Pyongyang degli aiuti garantiti dai Pae­si socialisti, è andata mano a mano ri­ducendosi, ma ha costretto Kim Jong­il a diminuire, e poi ad interrompere, la distribuzione delle razioni di cibo. Una vera rivoluzione nella vita dei nordcoreani che, per la prima volta dal­la fondazione della nazione, si sono dovuti ingegnare nel cercare altre fon­ti di sostentamento. Il denaro, pratica­mente inutile visto che tutto (dal cibo ai vestiti, dalle abitazioni ai servizi so­ciali) veniva garantito e distribuito dal­lo Stato, cominciò ad acquisire impor­tanza ed oggi almeno il 75% del sala­rio medio di una famiglia nordcorea­na proviene dall’economia privata.

Ristoranti e birrerie
Non è facile accorgersene, ma in ogni quartiere di Pyongyang e in ogni città della Corea del Nord oggi sono stati a­perti ristorantini e birrerie gestite pri­vatamente da famiglie. Poco distante dalla stazione ferroviaria, in una tra­versa di Chollima Street, la famiglia Son gestisce, con un certo successo, un lo­cale frequentato da residenti. Con 5 eu­ro si mangia pulgoki (carne alla brace), raengmyeon (una sorta zuppa di ca­pelli d’angelo con verdure) e dolce. «Quasi tutti i giorni il ristorante è pie­no », afferma con orgoglio Gum-sun, la proprietaria del locale. Come lei, mi­gliaia di famiglie hanno oramai intra­preso attività in proprio grazie alla fit­ta rete di commerci, più o meno leciti, con il vicino cinese. In ogni città nord­coreana oramai esistono due mercati paralleli: i jangmadang, quelli ufficia­li, e i golmokjang, non riconosciuti dal­le autorità, ma da esse tollerati. È in questi ultimi che si concludono la mag­gior parte degli scambi commerciali.
A Sinuiju, al confine con la Cina, il gol­mokjang Chaeha-dong, aperto dopo le riforme economiche del 2002, si è ingrandito talmente che nel 2013 è sta­to trasferito in periferia ed ora si e­stende su un’area doppia rispetto al precedente. «Mercati come questo sor­gono in ogni città al confine con la Ci­na e si stanno espandendo anche nel­le province interne», afferma Fu Xue, u­na commerciante cinese che trascor­re quasi tutto il suo tempo lungo il con­fine sino-coreano vendendo mercan­zia sul versante più povero. «Un tem­po ero io a imporre il prezzo, oggi i co­reani trattano e il guadagno si assotti­glia ». Un segno, questo, che l’econo­mia di mercato sta entrando nella mentalità diffusa.

Si paga anche in dollari
Gironzoliamo tra i tavolini che espon­gono piccoli elettrodomestici, scarpe, vestiti e, naturalmente, un assorti­mento incredibile di alimentari. Tutto viene pagato in yuan o in dollari. Un chilo di riso costa sui 5 yuan, pari a 6.500 won, quasi quanto lo stipendio mensile di un impiegato nordcoreano che, in media, guadagna 7.000 won, e­quivalenti a 51 dollari al cambio uffi­ciale, ma che crollano a soli due dolla­ri al mercato nero. «Kim Jong-un ha reintrodotto la di­stribuzione delle razioni», dice Kim Yong-bin, funzionario del Diparti­mento Internazionale del Partito del Lavoro Nordcoreano, che continua: «Attualmente il 40% della popolazione riceve razioni sufficienti, ad altri ven­gono date due o tre vol­te l’anno, ma speriamo, nel giro di poco tempo, di estendere la distri­buzione a tutto il po­polo in modo che i co­reani non debbano ri­correre a commerci privati per poter soddi­sfare le proprie neces­sità ». La dichiarazione di Yong-bin dimostra non solo quanto stia cambiando l’atteggia­mento del governo nei confronti dei propri cit­tadini, ma anche il riconoscimento di un’economia alternativa protocapita­lista sempre più rilevante che va di pa­ri passo con un allentamento del con­trollo sociale.

L’informazione ora circola
Praticamente ogni famiglia nordco­reana possiede un lettore Dvd e, no­nostante sia formalmente proibito, i telefilm e le soap opera sudcoreane so­no un bestseller nei mercati. E con l’av­vento dei telefonini (si calcola che tra 1,5-2 milioni di nordcoreani abbiano un cellulare) e di Internet, il governo ha praticamente smesso di censurare le notizie provenienti dall’estero. «Or­mai più nessuno in Corea del Nord cre­de che nel Sud si muoia di fame e si vi­va peggio che al Nord», racconta un nordcoreano che viaggia spesso oltre­confine per lavoro. La propaganda, un tempo concentrata a biasimare la dit­tatura sudcoreana e a dipingere un go­verno che opprimeva ed osteggiava la volontà di riunificazione espressa dal popolo (quest’ultima circostanza vera fino alla fine degli anni Novanta), oggi è praticamente scomparsa dai media nordcoreani, semplicemente perché è chiaro che non sarebbero più creduti. La diffusione delle notizie ha permes­so anche di creare una sorta di social­community, incoraggiando singoli cit­tadini a muovere critiche alle autorità locali. Se un tempo il governo centra­le avrebbe semplicemente ignorato o, peggio, considerato le accuse come un atto di offesa al regime, oggi queste vengono perlomeno tollerate e, a vol­te, ascoltate. Numerose commissioni d’inchiesta hanno verificato la fonda­tezza delle denunce e gli amministra­tori sono stati sollevati dal loro incari­co.

Affari, lusso e anche casinò
Del resto non è più possibile nascon­dere alcune evidenti realtà: a Pyongyang arrivano continuamente uomini d’affari che nei fine settimana giocano a golf, il mastodontico alber­go Ryugyong, iniziato negli anni Ot­tanta e abbandonato per due decenni, è oggi un hotel di lusso gestito dalla catena te­desca Kempinski, mentre a Rason i cine­si giocano d’azzardo nel casinò dell’Empe­ror Hotel, dove una ca­mera costa 500 dollari a notte. Solo una deci­na d’anni fa tutto que­sto sarebbe stato bol­lato come esempio di decadenza tipica delle società capitalistiche.
Le aperture volute da Kim Jong-il e accelera­te dal figlio hanno avuto ripercussioni anche sui diritti umani. Sebbene le or­ganizzazioni preposte al loro control­lo continuino a denunciare violazioni, vi sono alcuni segnali in controten­denza. Le condanne, per lo meno, non sono più collettive o familiari, ma in­dividuali. Questo ha portato le auto­rità a punire il singolo cittadino, men­tre la sua famiglia, un tempo trasferita assieme al colpevole nei campi di rie­ducazione, rimane soggetta a restri­zioni (trasferimenti coatti, lavori so­cialmente meno ambiti e retribuiti, proibizione di vivere e frequentare le città).
La Corea del Nord non è certamente il migliore dei mondi in cui vivere, ma non è neppure il peggiore.