Oscar Giannino, Il Messaggero 23/6/2013, 23 giugno 2013
IL CORAGGIO DI TAGLIARE LE SPESE E LE TASSE
Ogni governo non ha colpa di ciò che ha ereditato. Ma ogni buon governo dovrebbe trarre lezione dagli errori commessi da chi l’ha preceduto. Nelle prossime due settimane il governo Letta dovrà assumere le decisioni più attese, dall’intervento di decontribuzione a favore dell’occupazione alla scelta sull’Iva. Non dunque per tirargli la giacca o per pregiudizio ostile, ma solo per buon senso costruttivo bisogna richiamare il governo a riflettere sull’errore più profondo commesso dagli esecutivi che in questi ultimi tre anni hanno affrontato la crisi: l’errore sulla spesa e sulle entrate pubbliche.
È un richiamo utile non solo perché si fonda su numeri oggettivi, ma anche per due altre ragioni. La prima è che sulle imposte riaffiorano polemiche accese anche in questo governo, esattamente come nei precedenti, e ieri se n’è avuta riprova con un aspro scambio di dichiarazioni tra il vicepremier Alfano e l’onorevole Franceschini. Le divisioni interne su spesa e tasse ai governi non hanno mai portato bene, hanno solo l’effetto di indebolirne ulteriormente l’azione.
La seconda è che i mercati finanziari globali stanno drasticamente cambiando di segno. Come l’onorevole Letta e il ministro Saccomanni sanno bene, avrà effetti molto rilevanti la decisione americana e cinese di avviare la deflazione della grande bolla mondiale provocata da anni di denaro facile immesso sui mercati dalle loro banche centrali. La conseguente fuga dall’obbligazionario ad alto rendimento comporterà nuovi innalzamenti del rischio sovrano per i Paesi eurodeboli: la tendenza al rialzo dello spread italiano e spagnolo si è già manifestata. Sperare in cambi di segno a breve della politica europea è rischioso. L’Europa ha tempi lunghissimi, in Germania si vota in autunno, e a giudicare dall’accordo in via di definizione per i salvataggi bancari, la linea generale resta quella assunta a Cipro: cioè che ogni Paese debba affrontare da solo il più dei propri guai. Con 300 miliardi di titoli pubblici italiani da emettere ogni anno, se il governo non intende assistere e braccia conserte all’aggravarsi per miliardi dell’onere del debito pubblico, allora occorrono decisioni nuove e coraggiose. Proprio nella materia su cui l’errore è stato maggiore: la spesa e le entrate, appunto. Vediamo in pochi punti perché. Primo. A tirare la cinghia sono stati solo gli italiani, famiglie e imprese, non lo Stato. Sono i numeri a dire che l’austerità per lo Stato non è esistita, ed è solo a carico di noi contribuenti. Dal 2009 a fine 2012, il deficit pubblico italiano è diminuito rispetto al tendenziale, grazie alla manovre varate da Tremonti e Monti, di circa 35 miliardi di euro. Ma il saldo è migliorato per effetto esclusivo dell’aumento di entrate. Le entrate della Pa sono aumentate di quasi 38 miliardi tra imposte, tasse e contributi. E l’aumento di entrate eccedente il miglioramento del deficit ha coperto l’aumento della spesa pubblica, che ha continuato a crescere – sia pur con minore intensità - anche sotto il governo Monti. In particolare, dal 2009 la spesa corrente pubblica è aumentata di 21,5 miliardi e l’unica riduzione significativa è stata quella del crollo della spesa in investimenti, con 19 miliardi in meno. L’esatto contrario di quanto andava fatto.
Secondo. Gli aumenti di entrate pubbliche sono avvenuti per tutti i loro diversi tipi: imposte dirette, con l’aliquota più alta cosiddetta “di solidarietà”; imposte indirette, con l’Iva; imposte patrimoniali, con Imu, conto titoli, auto, barche, eccetera; contributi sociali, per autonomi, professionisti e precari iscritti alla gestione separata Inps. È essenziale ricordare che un sistema fiscale esercita incentivi e disincentivi sull’economia reale – lavoro, consumi, investimenti, risparmio – a seconda di come viene modulato. Chi da noi per esempio sostenesse l’ulteriore aumento dell’Iva additando l’esempio tedesco, sbaglierebbe. Nel 2006 Italia e Germania ricavavano dall’Iva ciascuna poco più del 6% del proprio Pil. Noi siamo rimasti a quella quota, i tedeschi hanno accresciuto il peso dell’imposta indiretta sul totale delle loro entrate pubbliche e oggi raccolgono dall’Iva il 7,4% del Pil. In questo modo hanno effettuato una svalutazione per via fiscale pari a circa l’1%. Ma mentre facevano questo abbassavano o tenevano fermo il prelievo sui redditi delle persone fisiche e delle imprese. I contributi obbligatori sul salario lordo in Germania sono al 19%, da noi invece pesano per il 32,5%. Risultato: aumentare tutte le entrate di ogni tipo ha sì fatto scendere il deficit, ma ha causato la peggior perdita possibile di Pil e reddito. Terzo. Non c’è enfasi e propaganda che tenga, sulla sacrosanta lotta all’evasione fiscale. Perché da essa non possono venire nel breve gli effetti necessari per rimediare a squilibri del bilancio e crescita che manca. Le cifre parlano da sole: con 12 miliardi di euro l’anno da proventi aggiuntivi da evasione, cifra raddoppiata negli ultimi due anni rispetto ai precedenti, occorrono dieci anni per pareggiare un solo anno di gettito mancante stimato. È come vuotare l’oceano con un cucchiaino. Per di più molto oneroso, visto quanto costa il complesso di apparati, uomini e tecnologie messo in piedi in questi anni per potenziare la lotta all’evasione, i riccometri, gli spesometri, gli studi di settore, i software sempre più sofisticati per conoscere e gestire tutti i nostri movimenti bancari. In dieci anni lo Stato ha speso circa 19 miliardi di soli potenziamenti tecnologici della Pa. Roba da missione su Marte. Gli errori sono chiari. Il problema è avere volontà e determinazione per cambiare rotta. Non c’è più bisogno di commissioni e rapporti. Dopo anni di analisi della composizione della spesa pubblica corrente, sappiamo dove è tagliabile senza conseguenze recessive, cioè non nel welfare e non nei servizi finali alle vittime della crisi. I soli costi intermedi della Pa, le forniture, sono saliti da meno di 100 miliardi annui a 145, nel decennio. Se anche il governo Letta non individuerà 4-5 punti di Pil da convertire triennalmente in meno spesa per meno imposte su lavoro e impresa – questa è l’emergenza – l’alternativa sarà quella di affossarsi come puntualmente avviene nel dibattito su Imu e Iva. Slittamenti di qualche mese non servono se non a indebolire il governo, deprimere ulteriormente l’economia, ridare spazio ai populismi. Non è più tempo per nuove deleghe fiscali di due anni. Adesso bisogna scegliere se vogliamo più Iva con molta meno pressione fiscale sui redditi da lavoro e impresa, e se non convenga un sistema fiscale più amichevole rispetto a uno oppressivo e anticostituzionale: poiché è anticostituzionale per esempio la mediazione obbligatoria tra contribuente e amministrazione fiscale giudicata dalla stessa amministrazione fiscale che accerta e sanziona, come è anticostituzionale che tra contribuente e amministrazione non vi sia nel contenzioso un giudice terzo. E come, a mia opinione, dovrebbe essere anticostituzionale tassare alle imprese il magazzino invenduto, come si fa oggi. Certo, sono scelte difficili. Per questo da Tremonti e Monti non sono venute. Ma pensare solo all’equilibrio del bilancio per via di entrate oggi significa far morire l’Italia e il governo insieme.