Salvatore Settis, la Repubblica 24/6/2013, 24 giugno 2013
NEL SEGNO DEL DAVID
«Odi l’altra parte» : così ammonisce la scritta di una lunetta dipinta a Firenze verso il 1430, e che serviva da sovraporta in una sede pubblica, probabilmente il Monte Comune, dove si amministravano i prestiti forzosi e volontari dei privati raccolti dal Comune di Firenze per contrastare il debito pubblico. Iconografia religiosa ed etica civica si intrecciano in modo indissolubile non solo in questa, ma in ogni altra opera esposta alle Gallerie dell’Accademia di Firenze in una mostra eccezionale, Dal Giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento (fino all’8 dicembre). Curata da Maria Monica Donato e Daniela Parenti con un nutrito gruppo di collaboratori anche giovanissimi, la mostra ricostruisce con un percorso rigoroso e accattivante un universo di immagini e un orizzonte di valori che il tempo sembra aver disperso. Ci mette sotto gli occhi una Firenze intrisa di figure, prelevate talvolta dal mito antico (Marte, Ercole), altre volte dal repertorio dell’arte cristiana, ma tutte reindirizzate a dispiegare, come altrettanti e convergenti manifesti, un’idea di città, un ideale di cittadinanza. Si alternano, nelle preziose stanze dell’Accademia, opere di grandi maestri (come il bronzeo Santo Stefano di Lorenzo Ghiberti o Ercole che strozza l’idra di Antonio del Pollaiuolo), dipinti e sculture di maestri “minori” (Niccolò di Tommaso, Bernardo Daddi), ma anche sigilli, manoscritti, miniature, iscrizioni. L’impressione che se ne ricava, grazie alla sapiente scelta e presentazione dei materiali, è di una grande polifonia corale, in cui il pensiero dominante non è l’“arte” (concetto astratto, che solo nel Settecento prese il significato che ha per noi oggi), ma la funzione delle immagini. Nel mondo che la mostra ricostruisce per noi, magistrati e cittadini privati, vescovi e abati, eruditi e notai, tutti sembravano volersi dire l’un l’altro, attraverso le immagini oltre che con le parole, quale fosse e quale dovesse essere la loro città. Quali le aspirazioni, quali le regole del gioco, quale il passato e quale il futuro.
La città come spazio pubblico del discorso, come luogo primario della politica (nel senso di “discorso fra cittadini della polis”): questa la lezione che la mostra ci impartisce, riallestendo in diverso ordine e secondo una sequenza stringente opere anche assai note, ma che in questo contesto prendono nuova luce e spessore e si illuminano a vicenda. Basta una visita a questa mostra per intendere che, strappando dai loro contesti d’origine affreschi e statue, iscrizioni e tavole dipinte, non abbiamo reso un gran servizio alla verità storica. Abbiamo allineato “opere d’arte” sulle pareti dei nostri musei, mettendo al margine le ragioni e i pubblici per cui furon create. Per cominciare a capire, dovremmo molto più spesso provare, come fa questa mostra, a ricreare almeno un’ombra dei contesti antichi: contesti di intenzioni, di pratiche socioculturali, di reazioni, di sguardi.
Già entrando a Firenze, sopra le porte dalla cinta muraria trecentesca demolita nell’Ottocento, limpide iscrizioni su lastre di marmo dichiaravano la fascia di rispetto, dentro e fuori le mura, dandone le esatte misure perché nessuno osasse edificarvi nulla. Una costante, questa, che rimase in vita anche nella Firenze granducale, con due ragioni convergenti: assicurare la funzione difensiva delle mura e garantire la forma della città, la sua visibilità e riconoscibilità da lontano. Quale baratro si sia spalancato fra tanta civiltà e dignità e la trista periferia che oggi assedia Firenze (e quasi tutte le nostre città) non fa bisogno ricordare. Simboli civici, come il giglio e il Marzocco, presidiavano porte e strade, libri e monete, ma anche un edificio come il Battistero poteva diventare simbolo della città, anche perché si credeva che fosse un tempio pagano riutilizzato (come a Roma il Pantheon), e dunque adattissimo a rappresentare la genealogia di Firenze dalla Roma imperiale, nonché la sua aspirazione ad esserne in Italia la vera erede, contro altri aspiranti come Pisa o Siena. Un’Incoronazione della Vergine dipinta nel 1372-73 da Jacopo di Cione, Niccolò di Tommaso e Simone di Lapo potrebbe apparirci, se la vediamo sulla parete di un museo, un quadro-standard di devozione: e invece fu commissionato dagli ufficiali della Zecca fiorentina, e a suggello della sua valenza squisitamente politica pone la scena sacra sopra uno zoccolo decorato con nove stemmi (due rami degli Angiò, Firenze, la Parte Guelfa, le Arti di Calimala e del Cambio, i due Signori della Moneta in carica). Anche i dieci Santi che assistono alla scena non sono lì a caso, ma tracciano una topografia celeste che corrisponde alla situazione politica di Firenze. San Giovanni Battista, ad esempio, è il protettore non solo della città ma di Calimala; san Barnaba è qui dipinto perché nel giorno della sua festa i guelfi sconfissero i ghibellini a Campaldino (1389); né poteva mancare sant’Anna, visto che nel suo giorno i fiorentini cacciarono il Duca di Atene (1343).
L’iconografia sacra diventa così veicolo e bandiera di un’esaltazione civile tutta profana, ma legittimata da una sorta di sovradimensione religiosa che a ogni tappa delle glorie di Firenze imprime il timbro della volontà divina. E quando Andrea Orcagna dipinge a fresco, nel vestibolo del carcere delle Stinche non lontano dal Bargello, un’articolata Cacciata del Duca di Atene (1344-45), la vicinanza dell’evento non fa che accrescere la pregnanza della rappresentazione. Inquadrato (sembra) da una cornice astrologica oggi quasi interamente perduta, il tondo mostra al centro una gigantesca sant’Anna in trono, sullo sfondo di una cortina riccamente decorata con le principali insegne della città. Con la destra, la santa consegna le bandiere alle milizie comunali, con la sinistra stende la mano a proteggere Palazzo Vecchio, mentre giace nella polvere il vessillo del Duca scacciato, che fugge in un angolo avvinghiandosi a una sorta di Gerione dantesco, barbuto e alato (una personificazione di difficile interpretazione), mentre lì presso si erge il trono vuoto della Giustizia. L’affresco, oggi frammentario, era corredato di iscrizioni che celebravano la cacciata dell’«aspro tiranno», «siché la libertà non vi sia tolta». Parole e immagini cospirano a comporre un unico discorso: in questo affresco come in altre rappresentazioni, ma anche nella fittissima trama di parole e di figure che si dispiegava per tutta la città.
Questa potente rete di immagini, che avvolgeva e condizionava la vita civile orientandone i valori e le azioni, si è dissolta e frammentata nel tempo. Perciò questa mostra ha natura archeologica, poiché ricompone un orizzonte che il tempo ha sconnesso. Ma ha, soprattutto, un forte carattere civile, perché ci ricorda che Firenze, come ogni altra nostra città, non sarebbe mai stata quel che fu, se quel sistema di pensieri e di discorsi pubblici non ne avesse informato ogni angolo e ogni istante. Uno straordinario richiamo al significato primario dell’arte come funzione della cittadinanza. Un richiamo che emerge da questa mostra, e che dovrebbe quanto meno frenare la cieca corsa verso la monetizzazione dei beni culturali che (anche a Firenze) ci offende e ci avvilisce.