Vittorio Zucconi, la Repubblica 24/6/2013, 24 giugno 2013
BORN TO KILL
Contava le teste come i petali delle margherite: morto, non morto, e nel dubbio, poiché era “umano”, finiva quelli ancora vivi. Il sergente Dillard Johnson del 7mo Cavalleria contò 2.746 iracheni uccisi da lui in un mese di guerra, record assoluto di petali umani staccati per un soldato, almeno da quando l’esercito americano tiene questa contabilità.
Ora che sta morendo anche lui, ad appena 48 anni, ucciso proprio da quelle munizioni di DU, di uranio impoverito, che aveva usato per la sua collezione di vite nemiche recise e che gli hanno causato un linfoma di Hodgkins, il sergente Johnson ha ripercorso in un libro di memorie il sentiero di sangue che lo portò dal Kuwait alla capitale irachena. Dalla fine del marzo 2003 alla resa di quello che restava delle forze di Saddam Hussein il primo maggio, guidò nell’avanzata il “Bradley”, il carro leggero per trasporto truppe che gli era stato affidato proprio dal reggimento dei suoi sogni, il 7mo Cavalleria, e percorse 600 chilometri. Alla velocità media di 4,5 morti al chilometro.
Fu lui stesso, dopo il primo incontro con il nemico nel villaggio di As Samawah, vicino a Nassiriya, nel buio terrorizzante di una tempesta di sabbia, a battezzare il carro leggero con il soprannome di “Carnivore”, il carnivoro. Con tre proiettili ben temperati del suo cannoncino da 25 mm, il sergente centrò un camion carico di soldati iracheni, sbriciolandolo. «Mi avvicinai ai resti fumanti del veicolo e dei loro occupanti» racconta nel libro che ha preso il titolo dal soprannome, e cominciai a contare le teste, che erano spesso la sola cosa riconoscibile. Erano sedici e qualcuno sembrava ancora vivo. Feci il solo gesto compassionevole che potessi fare. Li finii».
Quel giorno — era la fine di marzo — fu il coronamento di un sogno che Dillard Johnson aveva accarezzato fin da bambino. Nel Kentucky dove era nato e cresciuto, la terra dei distillatori di whisky di contrabbando in perenne lotta con le autorità, la culla delle figure leggendarie della frontiera cone Daniel Boone gran cacciatore si selvaggina e di indiani Shawnee, «i miei compagni di scuola sognavano di diventare astronauti, giocatore di football, pompieri, sceriffi». Ma non lui. Il suo eroe immaginario era il Sergente Rock, il micidiale soldato dei fumetti raccontato dai DC Comics, capace di abbattere aerei tedeschi con la mitragliatrice a braccio e di colpire nemici con mira infallibile e bombe a mano lanciate con la precisione di una pallina da baseball.
Anche lui, come un altro sergente, ma autentico, reso immortale dalle imprese nella Grande Guerra, il sergente York, aveva imparato l’arte di uccidere dal padre, nella vita quotidiana fra le colline e le valle degli Appalachiani. Il padre gli aveva regalato un fucile calibro 22 da bambino, glielo aveva personalizzato e lo aveva portato a caccia con sé, di giorno e di notte. Ma i cervi, gli orsi, i falchi di quei monti avevano un ovvio difetto: non sparavano a lui. Gli iracheni invece sì e questo aveva reso la caccia al soldato di Saddam infinitamente più «soddisfacente ed eccitante», dice.
Seguì i corsi paramilitari al liceo, ma non all’università, che non frequentò, dove sarebbe potuto diventare ufficiale, non che le barrette da sottotenente gli interessassero. «Gli ufficiali danno ordini, guidano plotoni, compagnie, reggimenti. Io volevo essere in prima linea, a combattere, a guardare in faccia chi voleva uccidere me, prima di ucciderlo». E poiché sparare proiettili all’uranio impoverito da un cannoncino a tiro rapido dalla torretta non è proprio il massimo del combattimento da Frontiera, il sergente Johnson decise di abbandonare il 7mo Cavalleria. Lasciò il reggimento che era stato del colonnello Custer nel disastro di Little Big Horn contro Sioux e Cheyenne, smontando dai cavalli e salendo su mezzi corazzati ed elicotteri a tutte le guerre americane, per trasformarsi in tiratore scelto.
Attraverso il mirino ottico del fucile da cecchino, nella solitudine degli agguati con lo “spotter”, l’assistente accanto per la misurazione della distanza e del vento, il sergente aggiunse altri 126 morti al bottino fatto con il ’Carnivore’, portando ai 2.746 il totale. Uno per uno, contando le teste, quando non restava altro nei veicoli nemici carbonizzati, i fucili abbandonati, poi i nemici colpiti senza che neppure potessero immaginare di essere bersagli a centinaia di metri di distanza, Johnson annotava tutto. Su un libretto, e sempre con una matita, molto più affidabile di biro o penne, annotava i suoi successi. Li riportava ai superiori come un diligente compito a casa, per il “body count”, il conteggio dei corpi che il Pentagono diceva di non fare più dai tempi del Vietnam, ma che continuava a fare.
Non si può naturalmente sapere con certezza storica se quei quasi tremila nemici abbattuti siano realmente un record assoluto, nella infinita sequenza di guerre, non soltanto americane. Miti e leggende ricordano altri celebri mietitori individuali di vite. Uomini come “La Morte Bianca”, il soprannome che i russi avevano dato al cecchino finlandese Simo Häyhä, quello che nell’inverno del 1940, con temperature polari, uccise con il proprio fucile almeno 705 soldati dell’Armata Rossa. O come Carlos Hatchkock, che in Vietnam freddò a distanze superiori al chilometro più di cento fra Vietcong e soldati del Nord. Anche lui, come il sergente Johnson, si era fatto l’occhio cacciando nella Grande Praterie del West, con la propria tribù di Cheyenne. I Nordvietnamiti lo avevano identificato soltanto come “Penna Bianca” e avevano messo una taglia da 30 mila dollari sulla sua vita. Lo avevano fatto anche i nazisti sulla testa di Ludmilla Pavlichenko, tiratrice infallibile, secondo la storia ufficiale sovietica, con 309 vittime tedesche confermate.
Ora, dieci anni dopo la mietitura di vite nelle valli dell’Eufrate e del Tigri, il grande falciatore venuto dal Kentucky è un signore vicino ai cinquant’anni che vive della pensione militare e di una consulenza per una società che produce, e non potrebbe essere altro, munizioni. Ha quattro figli ancora piccoli, l’Hodgkins che gli consuma il corpo e le risorse finanziarie oltre l’assistenza sanitaria degli ospedali militari, un cassetto di medaglie, un proiettile conficcato in una gamba e una casa in Florida, che divide con i figli e la moglie. Non vuol sentire parlare di record, ha detto al Ny Post che lo ha intervistato. Se ha scritto il libro è perché gli servono soldi, per le cure, la chemio e per lasciare qualcosa alla famiglia. «Non me ne vanto, non ne sono orgoglioso, non me ne importa molto. Ricordo con molta più gioia il primo cervo che abbattei nel Kentucky andando a caccia con mio papà che era tanto orgoglioso di me».
Dell’Iraq ricorda quello che tutti i veterani e reduci ricordano, la paura, l’estraneità di quel mondo, il buio delle tempeste di sabbia, l’adrenalina. Ricorda: «Ci trovammo improvvisamente avvolti in un tornado di sabbia che ci accecò e che ci impediva di vedere anche gli altri mezzi corazzati che pure stavano a tre o quattro metri da noi. Vedevamo soltanto attraverso la radio e la voce del capitano che era in contatto con i ricognitori JSTAR in volo e ci riportava notizie terrificanti. C’era un ponte sull’Eufrate, davanti a noi, da qualche parte e il capitano ci avvertiva che una colonna di forse mille, dico mille camion per il trasporto truppe venivano nella nostra direzione. Voleva dire almeno ventimila uomini e poi carri armati, trasporti blindati, pezzi semoventi. Da un’apertura improvvisa nel buio della tormenta di sabbia credetti di vedere la sagoma di un autocarro iracheno e feci fuoco con il cannoncino rapido, tre colpi, tuf, tuf, tuf, pregando che non fosse uno dei nostri, perché tanti di noi erano già stati centrati dal fuoco amico».
Fu il suo primo “kill”, il suo primo bersaglio centrato, quello che lo portò a contare i resti come petali caduti. «Tirai un grande sospiro di sollievo, quando vidi che avevo centrato il nemico», ma la sua gioia più grande sarebbe venuta più tardi, alle porte di Baghdad, quando vide una Mercedes bianca correre via su una strada. «Non c’erano veicoli civili sulle strade, in quei giorni, e certamente non Mercedes Benz. Avevo letto che Saddam aveva a disposizione una flotta di auto blindate così e per un attimo pensai che sopra ci fosse lui». Il “Carnivoro” esplose un salvo di proiettili all’uranio e la Mercedes si inchiodò, colpita. Il sergente la avvicinò con il suo mezzo, senza scendere e portò il carro sopra, schiacciandola. E se ci fosse stato sopra Saddam? «Lo avrei schiacciato, come lo scarafaggio che era».
Non ha più voglia di sparare, oggi il sergente maggiore Dillard Johnson. Tra una sessione e l’altra di chemio va con i figli a fare surf nelle onde dell’Atlantico, sulla costa della Florida. «Ho fatto quel che volevo e che dovevo fare, non ho rimpianti né vanità». Una cosa però ha imparato, il sergente carnivoro: «La guerra non è quella illustrata nei fumetti».