Maurizio Crosetti, la Repubblica 23/6/2013, 23 giugno 2013
BELLA VITA E CATTIVE COMPAGNIE QUANDO GLI DEI DEL PALLONE FINISCONO A BRACCETTO COI BOSS
CI SONO campioni da esibire come trofei, fantasisti malaccorti o troppo furbi, attaccanti dalla vista lunga che hanno capito come l’amicizia (anche solo di striscio) con un boss criminale li possa rendere intoccabili, venerati nei vicoli e nelle piazze, ancora più fascinosi e preziosi di quanto già siano sul campo. Di relazioni pericolose tra gloria sportiva e malavita organizzata è piena la storia del calcio, e neppure una divinità calcistica come Diego Maradona seppe sfuggire alla regola. Napoli, si dirà. Forse, ma non solo. Di certo, il football al meridione sembra prestarsi più e meglio a certi intrecci, la casistica è ricca, e neppure la caduta nel pozzo di qualche fuoriclasse ha evitato alla storia di ripetersi.
Ben prima di Fabrizio Miccoli e della sua triste figura da guappo telefonico, altri non seppero resistere alla tentazione. Come quello sprovveduto (come minimo) di Mario Balotelli, quando pensò di farsi quattro passi a Scampia con un imprenditore poi finito sotto processo per riciclaggio, Mario Iorio, e un pregiudicato, Biagio Esposito, nella nota e bizzarra gita: davvero Balotelli, quel giorno, chiese di giocare allo spacciatore? Forse no, ma la leggerezza (come minino) rimane.
Pure il grande Diego, che di nulla avrebbe avuto bisogno, in teoria, più del suo dono, indulse in varie frequentazioni oblique, simboleggiate dalla famosa fotografia dentro la vasca da bagno d’oro a forma di conchiglia, lui (vestito) insieme ai boss Carmine Giuliano “O’ lione” e Luigi Giuliano “O’ re”, con quei sorrisi irraggiungibili, consapevoli di assoluta impunità, camicie sgargianti e scarpette da ginnastica.
Dieguito era un santo da portare in processione tra le svolte di Forcella, non mancava alle feste di compleanno dei boss, alle comunioni e alle cresime dei piccoli del clan. O così, o niente. Perché il boss ama il campione, lo usa come uno specchio che ne rimandi l’immagine, come un prisma di potenza: il campione irraggia, ed è fiero di essere un prescelto, ammesso nelle segrete stanze come nei saloni dei rinfreschi danzanti.
Persino don Raffaè si fece omaggiare dal calcio, addirittura in un’aula di tribunale, quando l’allora presidente dell’Avellino, Antonio Sibilia, un giorno si avvicinò alla gabbia di Raffaele Cutolo per stampargli tre baci sulle guance. L’Avellino amava colui che avrebbe ispirato una delle più memorabili ballate di De Andrè: il piccolo Juary, attaccante famoso per danzare attorno alla bandierina del corner dopo i gol, portò a don Raffaè una busta sulla quale stava scritto: “Dall’Avellino Calcio per Raffaele Cutolo”. Senza vergogna, senza nascondimento. Perché l’amicizia pericolosa rafforza entrambi gli amici, è come un flipper, un gioco di rimbalzi, ed è anche un contagio.
Frequentando figli e nipoti di boss, e dicendo quelle bestialità al telefono (sprovveduto Miccoli: chiunque, nel 2013, sa di poter essere intercettato e ascoltato, specialmente se non sta parlando con la nonna), il capitano — ormai quasi ex — del Palermo si è messo in un guaio un po’ più grande di quello di Marek Hamsik, il quale si fece fotografare insieme al latitante Domenico Pagano, affiliato agli scissionisti. Secondo Hamsik, solo un tifoso del Napoli. Perché la scusa è sempre la solita: non sapevo, non credevo. È successo anche al Pocho Lavezzi, quando si mise a sorridere davanti all’obiettivo digitale, e accanto aveva Antonino Lo Russo, figlio del capoclan Salvatore, oggi pentito: «Ma lui lo conoscevo come capo della curva», si scusò l’argentino. Anche perché, spesso, è vero: molte tifoserie sono comandate da delinquenti, il doppio ruolo non è un alibi ma, appunto, un raddoppio. Aggravante, quando sembrerebbe attenuante.
Diventò difficile, l’anno scorso, separare l’incredibile serie di rapine ai danni di giocatori del Napoli e relative mogli (lo stesso Lavezzi, Hamsik, Cavani) da questo cono d’ombra, dal gioco d’equilibrio tra il campione e il malavitoso. Un vezzo per alcuni, un’abitudine per altri. Che ci faceva il calciatore Aronica (Napoli, poi Palermo) al matrimonio del figlio del boss Luigi Bonaventura? Mica è obbligatorio essere Maradona, per esserci.
Campioni di oggi e di ieri non hanno saputo evitare certi banchetti, certi oscuri lavoretti. La latitanza di Giorgio Chinaglia buonanima iniziò da un’inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco legata al clan di Casal di Principe, una brutta storia di soldi in transito dall’Ungheria. Ed è tutta da chiarire la morte di Donato Bergamini, ex del Cosenza: non fu un suicidio.
Calciatori come trofei, come icone o madonne pellegrine da trasportare alle sagre di mafia e camorra. Ma anche imparentati direttamente con il buio: è il caso di Giuseppe Sculli e di suo nonno Giuseppe Morabito, boss soprannominato “U Tiradrittu”. In un’inchiesta sulla ‘ndrangheta, i giudici scrissero che Sculli «è perfettamente integrato nella realtà criminale della propria area», ma tutto cadde in prescrizione. «Vergognarmi? Ne vado a testa alta, ne sono fiero», disse “il giocatore d’onore”. Del resto, i parenti mica si scelgono. Gli amici pericolosi invece sì.