Francesco Merlo, la Repubblica 22/6/2013, 22 giugno 2013
L’UNESCO PROMUOVE L’ETNA IL VULCANO IN BIANCO E NERO
ADESSO che finalmente è patrimonio dell’umanità, forse davvero realizzeranno il mio vecchio sogno di organizzare sull’Etna il festival mondiale della bellezza in bianco e nero. Solo chi non lo conosce pensa infatti che l’Etna sia fatto di boati, rutti, lapilli, bruttissime case moderne come schiaffi architettonici e parole dialettali come schiaffi linguistici.
C’è invece la bellezza a partire da quel luogo, anzi “non-luogo”, in cui il mondo finisce e l’Etna comincia, il rifugio Sapienza, casolare e parcheggio, “colonne d’Ercole” da cui fare ali al folle volo tra il nero cupo della terra e il bianco abbagliante della neve.
E si scopre che l’Etna, che ha cambiato orografie e paesaggi, ha distrutto e rinnovato culture ed economie, è anche, in piena estate, il freddo intenso, irreparabile e insopportabile in un paesaggio che già verso i 1500 metri diventa deserto, con la neve conservata ancora a Ferragosto in speciali buche nere che servivano come frigoriferi. La più grande “grotta del gelo” è un cunicolo nero che, dopo 15 metri di discesa, diventa una strepitosa caverna bianca di ghiaccio.
E forse sono, questo freddo in mezzo al caldo e questo deserto in cima al mondo, un anticipo del futuro prossimo che gli scienziati del clima prevedono in bianco e nero. Quando il Sole brucerà la parte nobile del Creato il mondo diventerà tutto come l’Etna e dunque il caldo ci farà morire di freddo, con i pinguini alla Casa Bianca e le stalattiti nelle moschee del Cairo, come nei crateri sommitali appunto, a più di 3000 metri d’altezza, o dentro le 200 grotte del gelo, nevi perenni sotterrate nei deserti di pietra e tutti gli umani ridotti a vagabondi impauriti, zingari sempre bagnati e sempre arrostiti, come i turisti che d’agosto salgono sull’Etna armati dei loro miserabili giubbottini antivento e bruciano di freddo affacciati ai bordi della Valle del Bove, un meraviglioso immenso catino con pareti alte 1000 metri: solo chi l’ha visto ha un’idea del Nulla.
Noi etnei, noi indigeni, attivando sani meccanismi di compensazione, ci scopriamo sadici davanti a questi poveracci ormai smarriti nel freddo e dunque disposti a comprare la strana mercanzia che appare all’improvviso: un liquore rosso e micidiale per esempio, che si chiama Fuoco dell’Etna e accende lo stomaco mentre lo buca, e colbacchi di plastica e pelo, guanti, copriorecchie, persino grandi cartoni che con tutta evidenza non servono a niente: «Lo compri, dia retta a me». Ma perché? «Non si sa mai». E il venditore mostra con il dito, così tanto per confondere, uno dei crateri spenti, centinaia di montagnette nere dalle quali un fumo bianco esce ancora dopo anni, come la coda di un inferno morto.
Il bianco e il nero possono già spaesarti quando arrivi in volo. Ad aprile dall’oblò vedi infatti l’Etna bianco, ma già un minuto dopo, appena l’aereo gira verso Catania, vedi l’Etna nero. Il vulcano ha una faccia più a lungo innevata perché e sempre nascosta al sole. E sicuramente i mitici Pink Floyd l’avrebbero cantata al posto della Luna, “The dark side of the Etna”, ma, poveretti, non sono mai venuti a vedere la ginestra che è l’unica pianta al mondo capace di nutrirsi di fuoco e di bucare la roccia nella campagna che si azzuffa con il nero dominante delle distese di lava.
Sulla strada che porta all’Etna sono neri i vecchi edifici e i palmenti, le chiese, i conventi, le ville, gli alberghi, le fontane, i monumenti e le pietre, e sono neri gli occhi e i capelli di uomini e donne. Ed è il nero più colorato del mondo come si capisce affacciandosi sul cratere centrale dove non c’è fuoco ma gas e minerali che danno al nero le sfumature del verde, del rame, del giallo prima di scioglierlo nel bianco e mutarlo in grigio.
Del resto anche la città etnea, quella costruita prima del boom del cemento, è la città del bianco e nero, delle chiese nere di via Crociferi, del Tardobarocco nero, delle case in pietra lavica e in pietra bianca di Comiso, tanto che venendo dal mare a Dumas parve di entrare dentro un funerale. E sono bianche e nere le granite di mandorla e caffè e quelle di cioccolata e panna. Sono bianche e nere le sensazioni assolute, com’è bianco e nero il risotto all’inchiostro di seppia ricoperto di ricotta, anche se, come una minaccia, sulla sommità c’è uno sbuffo di pomodoro, memento del risveglio, dell’incendio che spaventa gli abitanti di tutto il mondo ma non noi etnei che, come le salamandre, usciamo sempre immuni dal fuoco, anche quando l’Etna fa sul serio e, in meno di mezz’ora, uno dieci mille Vietnam incendiano i frutteti, i pini di Linguaglossa e i famosi vitigni che danno il vino, ovviamente nero.
E quando fa sul serio l’Etna distrugge innanzitutto l’Etna di carta che piace all’Unesco («Se ne scrive da 2.700 anni...»), l’Etna dei poeti, dei mitografi, dei filosofi e degli economisti, il gatto che ronfa di Sciascia e il riformatore agrario di Tocqueville, il Titano e il filosofo Empedocle, la leggenda inglese di re Artù, il fertilizzante di colture intensive, il turismo degli sci-muniti, tenaci credenti nella più farinosa delle nevi. Quando fa sul serio scappano a gambe levate anche gli esperti. E il vescovo e i parroci capiscono che non è aria di processione e di miracoli, perché l’Etna contende a Dio il titolo di unico distruttore che è anche costruttore.
In fondo di un solo disastro irreparabile l’Etna è colpevole: quello di far credere a noi siciliani, qualsiasi professione svolgiamo, di essere speciali, appunto come l’Etna dove anche i cani, “cirnechi”, sono speciali, forse un residuo della caninità egizia. L’Etna ha prodotto speciali competenze con il compito di addomesticare il gigante, commissari straordinari, domatori di fuoco, tavoli dell’emergenza, contabili, albi d’onore, saperi specialistici, una retorica e un’aneddotica riferibili a quelli che in omaggio a Sciascia io chiamo “i professionisti dell’antilava”, una sorta di “Superprocura antimagma” che adesso darà il benvenuto all’Unesco, che ha capito oggi quel che i greci già sapevano quando costruirono il teatro di Taormina. Lo fecero in modo da avere l’Etna in bianco e nero come sfondo naturale del palcoscenico dove dominano il nero del coro e il bianco delle pietre di Taormina, il nero delle donne tebane e il bianco del cielo di scirocco, il nero che è l’assoluto del lutto e il bianco che è l’assoluto del candore.