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 2013  giugno 22 Sabato calendario

ECCO PERCHÉ SIAMO TUTTI CONDANNATI A ESSERE ARTISTI


FIN da adolescente ho apprezzato e collezionato i libri su Come si scrive un libro. Ne ho uno scaffale pieno, e di recente stavo cercando del materiale su trama, struttura e narrazione, l’aspetto tecnico della scrittura, pensando che magari avrei potuto imparare qualcosa. Se però si pensa alla vera arte, al Frankenstein di Mary Shelley, a Jekyll e Hyde di Stevenson, a Dorian Gray di Wilde, o magari allo straordinario racconto di Cheever, Il nuotatore, alla Metamorfosi di Kafka, a qualunque opera di Carver e persino di una poetessa come Sylvia Plath — bisogna cominciare a pensare alla sfrenata inverosimiglianza, audacia e genialità dell’idea o della metafora dell’artista, piuttosto che alla mera disposizione dei paragrafi. E quando si comincia a pensare a questo bisogna pensare all’immaginazione, a come funzioni, da dove venga e dove possa condurre. Allora ci si trova in un mare di proficui guai. La maggior parte delle persone ha continuamente delle buone idee, ma preferisce non farci caso. Gli autori appena citati trovarono invece soluzioni a conflitti che li turbavano e addirittura tormentavano, conflitti che allora dovevano sembrare un abisso o qualcosa di insolubile, e che richiesero infine un balzo verso un nuovo modo di vedere le cose. La loro immaginazione era capace di trasformare, di andare oltre, ed esigeva che una novità assoluta venisse creata a partire da cose vecchie, messe insieme in combinazioni scioccanti e dirompenti che ancora oggi risultando fresche e originali. Nonostante ciò, è più che possibile che il conflitto insopportabile provochi depressione o autodisprezzo. Si potrebbe definire la depressione “un fallimento dell’immaginazione.”
Tali conflitti producono però anche l’arte, e l’opera d’arte rappresenta il conflitto “insolubile”. La metamorfosi, ad esempio, il capolavoro di Kafka il cui eroe, Gregor Samsa, si sveglia un mattino e scopre di essersi trasformato in un insetto, mostra tra le altre cose il rapporto di Kafka con la propria famiglia, il modo in cui potrebbe trovare una via d’uscita dalla sua impasse personale, e quali potrebbero essere le conseguenze per i parenti. Era così che Kafka rifletteva sull’emergenza della propria vita, senza neppure affrontarla esplicitamente. Non poteva parlarne, e non poteva non parlarne. Non poteva neppure cambiare la propria vita; era troppo masochista per questo; semplicemente, scriveva. Essere realmente trasgressivi è una delle cose più difficili che ci siano. Ad ogni modo, il suo censore o revisore interiore lo rendeva creativo; le sue crisi facevano scaturire una metafora, e lui scriveva un racconto, inoculando nel lettore la malattia, affinché potesse cambiare la sua esistenza. [...] Romantici come Wordsworth e Coleridge sapevano che l’immaginazione è pericolosa quanto la dinamite, non solo dal punto di vista politico — in quanto la popolazione può avere idee notevoli, e tuttavia dissidenti — ma altresì all’interno dell’individuo. L’immaginazione può essere avvertita come un disturbo, o persino una forma di follia, quando in realtà è un’illuminazione. Senza dubbio l’immaginazione è rischiosa, e non può non esserlo; ci sono certi pensieri che devono essere repressi o preclusi. Il bene e il male, come nei film scadenti, vanno tenuti separati. Qui ci sono idee che non possono essere concepite o pensate fino in fondo, che non devono essere messe insieme, non possono fondersi, svilupparsi o apparire ambigue. Questo perché l’immaginazione, come il sogno, può essere antisociale. Platone voleva bandire l’arte dal suo stato ideale, perché era falsa, “un’imitazione,” per usare le sue parole, e avrebbe potuto eccitare eccessivamente i cittadini. E noi sappiamo, naturalmente, che lungo l’intero corso della storia scrittori e artisti sono stati attaccati, censurati e imprigionati, e che sarà sempre così. La Parola è sempre rischiosa, e deve esserlo.
Di conseguenza è chiaro che di rado l’immaginazione si comporta bene; può essere ignorata e censurata, ma non può mai essere scacciata definitivamente con la forza di volontà. Ad ogni modo, tale tentativo di scacciarla sarebbe un errore perché, a differenza della fantasia, inerte e immutabile — nella fantasia tendiamo a rivedere all’infinito le stesse cose — l’immaginazione rappresenta la speranza, la rinascita e un nuovo modo di essere. Se la fantasia è un ritorno del già noto e del familiare, si potrebbe dire che un’ispirazione sia l’improvviso svelamento di una parte della nostra identità, qualcosa che viene visto o compreso per la prima volta. [...]
L’immaginazione è una facoltà essenziale, e può essere sviluppata. È altrettanto necessaria dell’amore, perché senza di essa siamo intrappolati nelle deprimenti polarità degli aut-aut, in una Corea del Nord della mente, desolata e vuota, con poco da guardare. Senza l’immaginazione non possiamo ripensare ciò che conosciamo, né vedere abbastanza lontano. L’immaginazione, mentre lotta con l’inibizione, rappresenta altre idee e possibilità; è infinita, complessa, liquida, selvaggia ed erotica. L’arte de-familiarizza, e altrettanto fa l’immaginazione; il mondo banale appare di nuovo strano, e aperto in nuovi modi.
Naturalmente, l’immaginazione non è solo uno strumento del-l’arte, e non possiamo delegare tutta la speculazione agli artisti. Non sono solo gli artisti a mettere insieme cose complesse, a inventarne di nuove, ad aver bisogno dell’intuizione e a utilizzarla. In un certo senso, siamo tutti condannati a essere artisti. Che ci piaccia o meno, e che questo sia conscio o inconscio, siamo i creatori e gli artisti delle nostre vite, del futuro e del passato — ad esempio, possiamo guardare al passato come a un cadavere, a una risorsa o a qualcos’altro. Siamo artisti nel modo in cui vediamo, interpretiamo e costruiamo il mondo. Siamo artisti nel quotidiano, artisti del gioco, della conversazione, della passeggiata, del cibo, dell’amicizia, del sesso e dell’amore. Ogni bacio, ogni lavoro, ogni pasto, ogni cosa udita e ogni parola scambiata possiedono qualcosa di artistico, o ne sono prive.
Sopravvivere efficacemente nel mondo richiede enormi risorse. Ed essere audaci e originali è un’impresa difficile; può sembrare impossibile, perché abbiamo storie e tratti caratteriali che rischiano di diventare identità immutabili. Veniamo plasmati prima di potercene rendere conto; siamo frenati da ciò in cui siamo stati plasmati. E come se non bastasse, siamo posseduti da demoni distruttivi e chiacchieroni che non desiderano affatto il nostro bene. Vivere liberamente è una lotta; le identità divengono vincolate. Siamo limitati da versioni interiorizzate, inappropriate, della legge e del costume, che ci tengono troppo al sicuro, e non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza, che ci trattiene dal reinventarci e dal ricrearci. L’opera dell’immaginazione può apparire distruttiva, dato che la nostra intuizione ci deve strappare da ciò cui siamo più legati. Naturalmente, se riusciamo a farlo, paghiamo i nostri piaceri con la moneta del senso di colpa. Ma in definitiva l’infelicità e la disperazione sono più costose, e divengono una malattia.