Giorgio La Malfa, Corriere della Sera 22/6/2013, 22 giugno 2013
Adolfo Tino era nato ad Avellino il 23 luglio del 1900 da una famiglia tipica del Mezzogiorno, di grande dignità ma di scarsissimi mezzi finanziari
Adolfo Tino era nato ad Avellino il 23 luglio del 1900 da una famiglia tipica del Mezzogiorno, di grande dignità ma di scarsissimi mezzi finanziari. Era entrato a 18 anni nel «Giornale d’Italia» di Bergamini e ne era divenuto presto editorialista. Nonostante la giovane età, Tino aveva stretto rapporti personali con tutti i principali protagonisti politici di quegli anni, da Nitti a Bonomi a Giovanni Amendola. Lo stesso Mussolini, di cui Tino fu oppositore fin dall’inizio, ne aveva alta stima e lo utilizzava per tenere indiretti rapporti con Bergamini. In un’intervista pubblicata nel 1985 negli «Annali» dell’Istituto La Malfa, Tino sostenne che Giolitti e Nitti, insieme, avrebbero potuto frenare la marcia verso il potere del fascismo, ma, scontrandosi e contrapponendosi aspramente, aprirono la strada al regime. La capacità di analisi politica di Tino risalta in una serie di articoli scritti nel 1925 dalla Bulgaria e dalla Jugoslavia, pieni di osservazioni acute sulle circostanze degli avvenimenti di allora. Essi sono raccolti, insieme con alcuni altri suoi scritti degli anni Venti, in un raro volume pubblicato da Mediobanca nel 1978, che contiene anche gli articoli di Riccardo Bacchelli, Giorgio Amendola, Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini e Leo Valiani, apparsi dopo la sua scomparsa. Nel 1924, mentre è ancora al «Giornale d’Italia», Tino dà vita insieme ad Armando Zanetti a «Rinascita Liberale», una rivista che il fascismo chiuse nel 1925. Costretto anche a lasciare il «Giornale d’Italia», senza mezzi finanziari e senza neppure una laurea, Tino deve scegliere una strada. Si laurea in Giurisprudenza (dando dieci o quindici esami in una sola sessione) e si trasferisce a Milano. Scrive Riccardo Bacchelli, che di Tino fu molto amico, che questi «si trasferì a Milano poverissimo a intraprendere la carriera di avvocato, con lento e faticoso quanto sicuro progresso e successo». Negli anni milanesi, Tino coltiva una rete di amicizie e di contatti antifascisti. Conosce Raffaele Mattioli e ne frequenta la casa di via Bigli. Ed è nell’ambiente della Comit che incontra mio padre, entrato nel 1933 nell’Ufficio studi della banca. Si forma così un sodalizio solidissimo, da cui nascerà nel 1942 il Partito d’Azione, dopo una lunga e paziente tessitura fra gruppi fra loro molto diversi, che vanno dai crociani, come Omodeo e De Ruggiero, ai seguaci di Giovanni Amendola, come in fondo sono Tino e mio padre, ai gruppi di Giustizia e Libertà nati dai fratelli Rosselli, in cui militano Parri, Bauer ed altri, ai liberalsocialisti di Capitini e Calogero. A metà del 1942 Tino e mio padre preparano un memoriale per Salvemini, che è in America, nel quale preannunciano la fine del regime fascista per effetto di un colpo di Stato della monarchia che, scrivono, si prepara a sostituire Mussolini con un generale a lei fedele. Il documento, ricopiato in una scrittura minutissima e incollato nella costola di una agendina di pelle, viene consegnato da Enrico Cuccia in Portogallo, dopo un viaggio avventuroso, a George Kennan, il futuro ambasciatore americano a Mosca. Il documento, pubblicato sulle pagine del «New York Times» all’inizio del 1943, anticipa con precisione ciò che avverrà il 25 luglio. A Milano, Tino è una delle personalità più significative dell’antifascismo. Giorgio Amendola ricorda di averlo incontrato, all’inizio del 1943, nel suo studio di via Monte di Pietà, «centro di contatti fra gli esponenti delle varie correnti politiche dai liberali ai democratici cristiani, dai socialisti ai comunisti». Il 26 luglio la prima riunione dei partiti antifascisti si svolge nel suo studio. All’inizio del ’43 esce il primo numero dell’«Italia Libera», il giornale clandestino del Partito d’Azione, con il celebre articolo Chi siamo, scritto congiuntamente da Tino e mio padre, che enuncia la ferma pregiudiziale repubblicana. Quando la polizia fascista riesce a risalire al gruppo cui fa capo il giornale, Tino si rifugia in Svizzera nella casa di Certenago del marchese De Nobili, uno dei pochi diplomatici che avevano rifiutato di servire il regime. Lì, nel novembre del 1943, lo incontra Leo Valiani, passato clandestinamente in Svizzera con Ferruccio Parri per incontrare i rappresentanti degli Alleati, Dulles e McCaffery. «Adolfo Tino — scrisse Valiani su "Repubblica" il 7 dicembre 1978 — intuiva già, con realismo straordinariamente lucido, che la maggioranza degli italiani desiderava bensì la disfatta del nazismo e dunque del fascismo, ma per il rimanente intendeva cambiare il meno possibile le proprie abitudini. (...) Anche defenestrata la monarchia, si sarebbe avuta una maggioranza conservatrice. La Chiesa e il partito ad essa vicino ne sarebbero stati, a giudizio di Tino, i beneficiari». Al rientro in Italia nel 1945, Adolfo Tino, constatato come le speranze di un cambiamento profondo nella vita del Paese fossero destinate ad essere deluse, si allontana dalla vita politica e riprende la professione forense. Diviene consulente legale di Mediobanca e poi suo presidente a partire dal 1958 e fino alla sua scomparsa. Per dirne le qualità, bastano le parole che Enrico Cuccia gli dedicò nell’assemblea di Mediobanca dell’ottobre 1978: «Parlare di lui è difficile per chi ne ricorda l’insofferenza per le apologie e il brusco fastidio per ogni sbavatura retorica. (…) Della parte che egli ha avuto nelle vicende politiche del Paese, del rigore morale e del profondo realismo che hanno guidato il suo operare, altri hanno degnamente già scritto. (…) Come consulente legale di Mediobanca sin dalla sua costituzione e presidente dell’Istituto dal 1958, Adolfo Tino ha profuso i tesori della sua saggezza in consigli e in norme di condotta che hanno guidato lo sviluppo della banca sin dalla fondazione ed hanno conferito uno stile al nostro lavoro. (...) Chi non ha avuto la fortuna di ricorrere al suo avviso, difficilmente può immaginare quanto ricca di insegnamenti fosse questa esperienza, per la limpida chiarezza del suo raziocinare, per la lucidità e, talvolta, la spietatezza dei suoi giudizi, per l’acutezza e la profondità delle sue intuizioni. Egli era fra coloro quibus vivere est cogitare». È forse il caso qui di rivelare la parte importante che Tino aveva avuto nello spingere Cuccia a tentare la battaglia difficilissima della privatizzazione di Mediobanca fra il 1984 e il 1988. Tino aveva un drastico giudizio negativo sulla Dc, cui imputava un’assenza di senso dello Stato. Riteneva che essa avrebbe cercato di impossessarsi di quel vasto settore pubblico dell’economia che l’Italia aveva ereditato dal fascismo. I due partiti di sinistra non erano in grado di opporsi a questo disegno, anche per i pregiudizi ideologici che li caratterizzavano. Prevedeva che Mediobanca, per il peso che era andata assumendo, non poteva che divenire oggetto di un’offensiva e per difenderne l’indipendenza non sarebbe bastato né lo schermo delle Bin (Banche d’interesse nazionale), né il grande prestigio personale di Cuccia, né la difesa che avrebbero potuto opporre i partiti laici. Bisognava tentare una battaglia per portare Mediobanca fuori dal recinto del settore pubblico. E quando, nel 1988, la battaglia fu vinta, il commento di Cuccia fu semplicemente: «Lo avevo promesso ad Adolfo». Nel suo ricordo Giorgio Amendola scriveva di avere chiesto a Tino molte volte perché un uomo dotato di così notevole talento politico non avesse continuato la battaglia politica dopo che era stata restaurata la libertà, ma di non avere mai ricevuto risposta a questa domanda. È una domanda destinata a restare senza risposta. Nel suo ricordo di Tino, Bacchelli aveva scritto acutamente che «forse in lui la passione soverchiava la vocazione politica». Ma in ogni caso — aveva concluso — «la sua operosità costituì un esempio di civile e civica utilità e dignità, mentre lasciò negli amici un affettuoso ricordo di amicizia umana e generosa».