Matteo Persivale, Corriere della Sera 22/6/2013, 22 giugno 2013
L’ uomo con i capelli rasati, che fa jogging nelle viuzze semideserte intorno a piazza della Signoria, quando sbuca sul Lungarno che splende della luce ocra del primo mattino — «che ti incanta e ti dice dove sei», come scrisse Henry James — ricorda gli stessi passi percorsi molti anni prima, quando era un ragazzo che voleva diventare un attore famoso e si chiamava ancora David Law (Jude è il suo secondo nome)
L’ uomo con i capelli rasati, che fa jogging nelle viuzze semideserte intorno a piazza della Signoria, quando sbuca sul Lungarno che splende della luce ocra del primo mattino — «che ti incanta e ti dice dove sei», come scrisse Henry James — ricorda gli stessi passi percorsi molti anni prima, quando era un ragazzo che voleva diventare un attore famoso e si chiamava ancora David Law (Jude è il suo secondo nome). «Mancavo da Firenze da quando ero ragazzo, a diciott’anni venni qui con una compagnia teatrale che girava la Toscana, l’Umbria e il Lazio: facevamo il Pigmalione di G.B. Shaw — spiega Jude Law al Corriere —. Poi, correndo, questa mattina mi è ritornato tutto in mente, un dettaglio dopo l’altro. Poteva succedere solo in una città così». Law era a Firenze ieri, ultimo giorno di Pitti, per presentare la campagna pubblicitaria «He’s In Vogue» di Vogue Eyewear, della quale è testimonial. Fotografato dal maestro tedesco della moda Peter Lindbergh: «Con lui è facile lavorare, siamo amici ormai. È un omone che pare burbero ma in realtà è dolce. Quando mi abbraccia per salutarmi, sembra che un orso gentile mi stia stringendo tra le zampe. Speriamo che non strizzi troppo... Il suo talento è unico perché Peter ha il dono della trasparenza, toglie strato dopo strato per arrivare a un momento di verità. Per questo le sue foto, i suoi libri, restano impressi nella memoria. Perché sono autentici». Location extralusso a Oyster Bay, Long Island, dove il presidente Theodore Roosevelt passava le vacanze fin da bambino, sabbia bianca e mare straordinariamente blu. Spesso ingaggiato dalle aziende della moda e spessissimo fotografato dalle riviste, se gli si fa notare che Cary Grant diceva di Robert Redford «non gli daranno mai un Oscar non perché non sia abbastanza bravo ma perché è troppo bello» (era solidarietà: Grant stesso non vinse mai la statuetta finché non gliene assegnarono una ad honorem in imbarazzante ritardo), Law sorride. Con la nonchalance di chi il riconoscimento più prestigioso di una carriera già ricchissima tra cinema e teatro l’ha avuto non da una giuria di festival o dalla Academy ma dal governo francese: appena quarantenne, è già cavaliere delle Arti e delle Lettere. «Bello io? A parte che i complimenti fanno sempre piacere, specie di prima mattina — dice ironico — e ci manca anche che uno si risenta (Law è più alto, con meno capelli ma ancora più bello di quanto appaia al cinema, ndr), io credo che il problema stia più nell’essere etichettato come attore di commedia, drammatico, d’azione, magari come co-protagonista e non come attore protagonista... Se un attore è più o meno attraente, alla fine verrà giudicato per la bravura. Anche ammettendo che l’etichetta di "bello" possa portare con sé delle controindicazioni, insistere per affrontare ruoli sempre diversi è la via d’uscita (e scorrendo il curriculum di Law si passa dalla fantascienza al romanzo storico, dal thriller a Shakespeare, ndr)». Piace agli stilisti ma cerca di non esagerare con i look da fashionista: «Lavoro a volte con uno stylist inglese perché specialmente per la preparazione alle prime e ai galà è utile ricevere una mano, ma insisto sempre per tenere le cose nell’ambito della semplicità senza strafare. Mi piacerebbe dire che è modestia, ma più che altro ricordo che gli attori davvero iconici, come Cary Grant e Steve McQueen, si vestivano come piaceva a loro. Si sentivano a loro agio, uno con un bell’abito, l’altro in maglietta. Ecco, anche qui, la trasparenza è tutto». Matteo Persivale