Michele Farina, Corriere della Sera 22/6/2013, 22 giugno 2013
se Vacilla anche la Religione nazionale del Pallone– «E’ una grande notizia: da noi il calcio non è più sacro» commenta Fernando Duarte, guru del giornalismo sportivo brasileiro
se Vacilla anche la Religione nazionale del Pallone– «E’ una grande notizia: da noi il calcio non è più sacro» commenta Fernando Duarte, guru del giornalismo sportivo brasileiro. «Una volta la semplice presenza di giocatori del calibro di Neymar avrebbe placato gli animi della gente. Non è più così». Anzi: lo stesso Neymar, il più pagato gioiello della Seleção, è rimasto impigliato negli striscioni dei manifestanti: «Un’insegnante vale più di Neymar». Tiè. L’attaccante comprato dal Barcellona ha cercato via social network di schierarsi sulla barriera (la barricata) del popolo, ma non ha bucato la Rete. I tempi e i giocatori sono cambiati da quando il cantautore Vinicius de Moraes celebrava Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, l’analfabeta (ha scritto Darwin Pastorin) che sapeva interpretare il canto dei passerotti: «La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino». La Rivoluzione dell’Aceto (usato contro i lacrimogeni della polizia) non si ferma davanti ai palleggi di Neymar e alle progressioni dell’incredibile Hulk. Sfida i templi del futebol, dal Maracanà allo stadio Garrincha, e alza un’ola di furore quando il segretario generale della Fifa, Jerome Valcke, osa dire che tutto tornerà tranquillo se la squadra verdeoro arriverà alla finale di questa Coppa delle Confederazioni. Ma Valcke si sbaglia perché «il calcio non è più sacro» se la nazionale degli 11 Dei è costretta a «volare» allo stadio di Brasilia anziché prendere il pullman. Il mare di folla che normalmente li osanna adesso alza barricate al loro passaggio. Le marce verso il Parlamento non sono niente di nuovo, scrive il guru Duarte. Le barricate erette sulla strada dove passa la Seleção sono una vera rivoluzione. Una retrocessione inconcepibile nella scala dei simboli nazionali. Come perdere 10 a 0 contro Tahiti. Se non c’è più religione (del pallone), anche la religione «vera» (il Brasile è il più popoloso Paese cattolico del mondo) giustamente si preoccupa: i vescovi si riuniscono per fare il punto sul prossimo viaggio del Papa. Se Neymar non è più intoccabile, significa che anche il grande regista della Chiesa può beccarsi qualche striscione dai torcedores? Che onta: altro che le polemiche sulle vuvuzelas in Sudafrica. La Fifa, l’organizzazione del calcio mondiale, ieri è stata costretta a smentire le voci di una sospensione del torneo in corso e addirittura i dubbi su una possibile cancellazione della Coppa del Mondo da 13 miliardi di dollari prevista per l’anno prossimo. Qualcuno in Brasile fa balenare l’oltraggioso paragone con il caso della Colombia, che si vide cancellare i Mondiali del 1986 (poi giocati in Messico) per questioni di sicurezza. Inimmaginabile: la Coppa che emigra magari nella vicina, odiata Argentina della pulce Leo Messi? Per i brasiliani sarebbe peggio che uscire dai Bric, la squadra dei Paesi rivelazione in economia. O forse no? Il presidente della Fifa Sepp Blatter, prima di partire alla volta della turbolenta Turchia (che fortunatamente per lui non ha in programma tornei internazionali) ha chiesto ai manifestanti di «non strumentalizzare il calcio». Il futebol uno «strumento»? Quale eresia: per milioni di brasiliani il calcio è sempre stato un fine più che un mezzo, una magnifica malattia e insieme un potente anestetico contro quello che succedeva fuori dal campo. In fondo, Pelè e compagni trionfavano su Riva e Boninsegna mentre il Paese viveva sotto la cappa della dittatura militare. Nel 1980 il capitano della Seleção era il ribelle Socrates, Dottore di gioco e di democrazia. Sconfitto da Pablito al Mundial spagnolo, Socrates è morto nel 2011. Ci fosse lui oggi in campo al posto di Neymar, la Rivoluzione dell’Aceto avrebbe risparmiato i suoi 11 Dei? Michele Farina