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 2013  giugno 23 Domenica calendario

Zweig, il buio oltre il confine del Re Nero – P er mancanza di fantasia, non so giocare a scacchi

Zweig, il buio oltre il confine del Re Nero – P er mancanza di fantasia, non so giocare a scacchi. Ma sono affascinato dai giocatori che attraversano gli oceani, portando con sé le piccole figure in avorio. Come dice Stefan Zweig, «gioco antichissimo eppure eternamente nuovo, meccanico nella impostazione, ma dipendente dalla fantasia, confinato in uno spazio rigidamente geometrico eppure sconfinato nelle sue combinazioni: un pensiero che non porta a nulla, una matematica che non calcola nulla, un’arte senza opere. Dove ha iniziato e dove finisce?». Il grande giocatore di scacchi è un veggente: vede con la mente uno spazio infinito, dove i suoi sedici pezzi neri avanzano e indietreggiano vertiginosamente, a contatto con i sedici pezzi bianchi dell’avversario, che dispongono di un movimento non meno vertiginoso. Il possibile incontra il possibile, il probabile aggira il probabile. Il momento più arduo è quando i giocatori giocano alla cieca: sotto gli occhi non hanno una scacchiera fisica, ma soltanto una pura scacchiera mentale che occupa il loro pensiero, dove muovono le pedine bianche, sempre più avanti, sempre più avanti, indovinando l’oscuro, cieco spostamento delle pedine nere. Il vincitore è il veggente totale, che intravede con la mente tutto lo spazio che si raccoglie nella mente nemica. Il più grande (non certo il primo) tra i narratori delle vicende degli scacchi fu Firdusi, che tra il X e l’XI secolo dopo Cristo organizzò una meravigliosa partita nel Libro dei re, tanto grande da occupare l’India e la Persia. Non so chi sia il più moderno: nel 1964, con La Difesa, Vladimir Nabokov inseguì gli scacchi con la stessa passione con cui aveva inseguito le farfalle. La sua mente elaborava complicati espedienti strategici, inconsuete linee di fuga, mai tentate combinazioni; e la mano, dopo un’ora o un istante di angoscia, brancolava in cerca di una pedina e due dita la sollevavano con leggerezza e tornavano a posarla con leggerezza. La terribile forza della Regina dei Bianchi veniva immobilizzata: o il Re dei Neri esposto alla vergogna dello scacco matto. Vent’anni prima, pochi mesi prima di uccidersi, Stefan Zweig aveva scritto La novella degli scacchi (Einaudi, traduzione di Enrico Ganni, pp. 82, 8,50), uno dei racconti più belli del secolo scorso e certo il testo più intenso della sua opera. Giunto alla fine della vita, rinunciò al suo fecondo e mobile espressionismo per immaginare ironicamente un’ossessione astratta: astratta e ironica come il gioco degli scacchi. Il vero protagonista della Novella degli scacchi di Zweig è il dottor B., membro di una antica famiglia austriaca, che gestiva i patrimoni dei grandi monasteri e i fondi di alcuni membri della famiglia imperiale. Era controllato dalla Gestapo: quando Hitler si impadronì dell’Austria, le SS lo arrestarono nel suo studio segreto, e lo chiusero nella stanza di un grande albergo. La stanza era ermeticamente chiusa. Il dottor B. era stato privato di ogni oggetto: dell’orologio, affinché non sapesse l’ora; della matita, affinché non gli venisse la voglia di scrivere; del coltello, affinché non si tagliasse le vene. Gli erano state vietate anche le sigarette. Per due settimane non vide mai un volto umano e non sentì una voce umana: dal mattino alla notte e dalla notte al mattino, l’occhio, l’orecchio e tutti i sensi restarono privi di nutrimento. Era completamente solo con se stesso, con il suo corpo e coi quattro o cinque oggetti muti della stanza: tavola, letto, finestra, bacinella. Viveva nel buio oceano del silenzio come un palombaro sotto una campana di vetro. Non aveva niente da fare, niente da sentire, niente da vedere: era circondato dal nulla, dal vuoto totalmente privo di spazio e di tempo. Secondo la Gestapo, questo vuoto gli avrebbe aperto le labbra non dall’esterno — con le torture e le percosse —, ma dall’interno del suo io. Il signor B. era in attesa di qualcosa, ma non succedeva mai nulla. Aspettava, aspettava, aspettava, pensava, pensava, finché non si sentiva scoppiare le meningi. Viveva fuori dal tempo e dal mondo. Se in quei giorni fosse scoppiata la guerra, lui non l’avrebbe saputo: il suo mondo consisteva solo di tavolo, porta, letto, bacinella, sedia, finestra e parete. Non faceva che fissare la tappezzeria — dovunque con lo stesso disegno. Quando cominciarono gli interrogatori, il loro aspetto più spaventoso stava nel fatto che egli non riusciva mai a indovinare cosa quelli della Gestapo sapessero degli affari del suo studio. Non sapeva cosa volessero fargli dire. Ancora più terribile era ritornare nel suo nulla. Pensava all’interrogatorio della Gestapo; e i suoi pensieri erano altrettanto implacabili nell’accogliere il supplizio di tutto quel chiedere, indagare e torturare. Forse i suoi pensieri erano addirittura più crudeli, perché gli interrogatori finivano dopo un’ora, mentre i pensieri, grazie alla terribile compagnia della solitudine, non finivano mai. Questa era la meta dei nazisti: i pensieri dovevano strozzarlo fino a farlo soffocare. Alla fine, non avrebbe avuto scelta; e avrebbe detto tutto quello che essi volevano sapere da lui. Questa condizione indescrivibile durò — racconta il dottor B. — quattro mesi. Nessuno può misurare quanto duri il tempo nell’assenza di spazio e di tempo. Alcuni fatti lo inquietarono: gli sembrava che la sua mente stesse per confondersi. Avvertiva che le forze lo stavano abbandonando: si avvicinava sempre più il momento in cui, per sfuggire alla morsa soffocante, avrebbe detto ciò che sapeva, e forse anche di più. Alla fine, un piccolo incidente lo salvò. Doveva aspettare nell’anticamera del giudice: prima gli laceravano i nervi venendolo a prendere in piena notte e poi, quando era ormai abituato all’idea dell’interrogatorio, lo facevano aspettare un’ora, due ore, tre ore, per stancare il corpo e rendere docile l’animo. La stanza era diversa dalla sua. Osservò i cappotti bagnati dei suoi aguzzini, le gocce d’acqua che colavano sui cappotti, i bottoni, i risvolti: i suoi occhi lambivano queste inezie irrilevanti con una avidità estrema. Infine si accorse che la tasca laterale di uno dei cappotti era leggermente gonfia: dentro c’era un libro. I suoi occhi fissarono ipnotizzati quella lieve complessità: la sua bramosia ebbe il sopravvento sulla paura; si avvicinò meccanicamente, prese il libro e lo nascose nei calzoni. Il dottor B. sperava che il libro rubato fosse un’opera in grado di impegnare la mente. La prima occhiata fu di delusione: anzi, di rabbia e amarezza, quando si accorse che quel libro tanto atteso era soltanto un’antologia di centocinquanta famose partite di scacchi. Poi cominciò a giocare su una scacchiera formata dai quadrati del lenzuolo, utilizzando una serie di pezzetti di pane, modellati nelle forme del re, della regina, della torre e così via. Dopo una settimana, fu in grado di giocare in maniera impeccabile una partita: quindi di giocarla senza i quadrati del lenzuolo e i pezzetti di pane, in maniera puramente mentale; e infine di giocare agevolmente le centocinquanta partite del libro. Così aveva trovato un’attività: forse insensata, ma che gli permetteva di annullare il vuoto attorno a lui, impossessandosi della tecnica di prevedere, combinare e contrattaccare. Sentì che il cervello, grazie alla nuova disciplina mentale, si rinvigoriva e affinava; e durante gli interrogatori non mostrò più punti deboli, come si accorsero meravigliati i poliziotti della Gestapo. Tre mesi dopo, il dottor B. giunse di nuovo davanti ad un punto morto. Dopo averle giocate venti o trenta volte, le centocinquanta partite del libro avevano perso per lui il sapore della novità e della sorpresa. Che senso aveva ripetere di continuo partite che conosceva a memoria? Allora ebbe un’idea: Stefan Zweig racconta questa idea in un mirabile scorcio, portando all’estremo la sua forza di scrittore. Poteva giocare contro se stesso, scindendosi in due parti: Io bianco e Io nero. Cominciò a sfidarsi. Non aveva davanti a sé una scacchiera vera con pezzi veri: doveva proiettare la lotta immaginaria dei suoi due Io in uno spazio immaginario; e calcolare non solo la prossima mossa, ma anche le possibili mosse successive di entrambi i giocatori. Doveva prevedere con due cervelli, il cervello bianco e il cervello nero, tutte le situazioni che avrebbero potuto avvenire nel corso della partita. Così il dottor B. portò il gioco degli scacchi alla sua essenza, concentrando i due giocatori delle partite normali in un solo giocatore, e affidandogli tutte le mosse, sia le bianche sia le nere. Ognuno dei suoi due Io competeva con l’altro: ognuno diventava preda dell’ambizione e della impazienza di vincere; ciascuno provava un senso di trionfo quando l’altro sbagliava, o si esacerbava per la propria imperizia. Così nacque, in lui, una vera e propria schizofrenia. Durante il gioco entrava in una vertigine di eccitazione quasi maniaca. Il suo Io bianco aveva appena cominciato una mossa che subito il suo Io nero si faceva febbrilmente avanti: aveva appena finito una partita, che subito sfidava se stesso alla prossima. Era un’ossessione dalla quale non riusciva a difendersi: dalla mattina alla sera non faceva che pensare ad alfieri e pedoni e torri e re e regine, e allo scacco matto. Il piacere del gioco si era trasformato in una rabbia frenetica, che pervadeva non solo le ore di veglia, ma anche quelle di sonno. Non riusciva più a stare seduto: mentre meditava le partite, andava ininterrottamente su e giù, sempre più in fretta, sempre più in fretta su e giù, su e giù. La sua condizione era diventata una vera intossicazione da scacchi. Alla fine, proruppe in un urlo: aggredì il poliziotto che lo custodiva, lo afferrò alla gola, lo colpì, si tagliò le vene contro un vetro; e venne trasportato in un ospedale, dove gli fu diagnosticata una specie di follia cerebrale. Una mattina si svegliò. Il suo corpo era staccato da se stesso: riposava morbidamente con un senso di benessere. Con cautela, alzò le palpebre. Si trovava in una camera diversa, più larga e spaziosa della sua. Una finestra senza sbarre lasciava entrare liberamente la luce, e consentiva lo sguardo sugli alberi attorno. Si avvicinò una donna con una andatura aggraziata e una cuffia bianca: era una suora. Il dottor B. fu pervaso da un fremito di felicità. Era salvo. Ormai non interessava più la Gestapo, poiché nel frattempo Hitler aveva invaso la Cecoslovacchia e il caso Austria per lui era risolto. Due settimane dopo, il dottor B. poté lasciare l’Austria, dimenticando il periodo della reclusione, degli interrogatori e delle terribili partite a scacchi contro se stesso. Di quella tragedia rimase, in lui, soltanto un segno: un guizzo che, ogni qualche minuto, gli attraversava l’angolo destro della faccia, come un ricordo di follia subito mitigato.