Roberta Mercuri, vari, 24 giugno 2013
In Brasile, proprio mentre si gioca la Confederation Cup (si chiude il 30 giugno), centinaia di migliaia di uomini e donne scondono in piazza «perché non se ne può più
In Brasile, proprio mentre si gioca la Confederation Cup (si chiude il 30 giugno), centinaia di migliaia di uomini e donne scondono in piazza «perché non se ne può più. Della corruzione dei politici, dei trasporti pubblici che versano in condizioni vergognose, degli stipendi dei dipendenti pubblici e privati, delle scuole, degli ospedali, della violenza urbana. Martedì scorso erano 250 mila, ma giovedì sera si sono contate contato almeno un milione e 250 mila persone nelle strade e nelle piazze di tutto il Paese: 14 capitali di Stato e in totale 75 città invase dal popolo. Il picco a Rio: in 300 mila hanno sciamato, una avenida dopo l’altra, chiedendo un altro futuro. Sfilate inizialmente pacifiche, poi sfociate quasi sempre in disordini e scontri provocati da minoranze violente: la polizia ha risposto con lacrimogeni, spray urticanti, pallottole di gomma. Un caos, ma forse anche un formidabile risveglio di coscienze, che ha fatto dire per esempio agli inglesi: “In Brasile, a differenza di quanto succede da noi, hanno il coraggio di lottare per i propri diritti”» [1] La maggioranza dei manifestanti «sono giovani tra i 20 e i 25 anni, e la pelle è in prevalenza bianca, il che in Brasile coincide in pratica con la classe media e alta. E poi ci sono sempre i facinorosi» [2] Le manifestazioni di piazza erano cominciate all’inizio di giugno per di un aumento di 20 centesimi (da 3 a 3.20 reales) sul prezzo del biglietto dell’autobus. Tuttavia, «la decisione di revocare i rincari ha alimentato le proteste, anziché frenarle: il popolo ha capito di aver in qualche modo intimidito le istituzioni» ed è andato avanti [1] «Nessuno dei principali partiti è in piazza, né ha ancora preso posizioni chiare. È la rivoluzione dell’aceto. “Cerco aceto” è uno degli slogan che girano in rete e sui cartelli: con l’aceto si attenuano le conseguenze dei lacrimogeni, tutti lo usano per difendersi» [1] «Dopo le centinaia di feriti dei giorni scorsi, cadono le prime vite, il che ha costretto il presidente Dilma Rousseff a riunire il gabinetto di crisi del governo. Due i morti. Il primo è Marcos Delefrate, 18 anni: sta sfilando nelle strade di Ribeirao Preto, stato di San Paolo, quando viene investito da un Suv che compie una manovra spericolata per cercare strada tra la folla di manifestanti. La seconda è Cleonice Vieira de Moraes, 54 anni, netturbina: si rifugia negli uffici della prefettura di Belèm per sfuggire ai disordini, ma rimane soffocata dai gas sprigionati dai lacrimogeni lanciati dalla polizia e muore per una crisi cardiaca. Ci sono anche 80 feriti nel resto del Brasile, di cui 62 solo a Rio de Janeiro dove ci si scontra a lungo con la Força Nacional de Segurança (i corpi paramilitari antisommossa), dalla sede della prefettura fino in centro ad avenida Rio Branco, e a sud, a Largo del Machado. Oltre ai feriti, Rio registra la distruzione di un centinaio di semafori, di una trentina di spartitraffico, di 62 fermate di autobus. A Brasilia la gente prende d’assalto il Palazzo di Itamaraty, sede del ministero degli Esteri, lancia sassi sulla facciata, appicca fuochi: un manifestante rischia di perdere un occhio. A Vitoria, dove marciano in centomila, viene danneggiato il palazzo di Giustizia. La mattina di venerdì 21 giugno, undicesimo giorno di tumulti, vengono evacuati due ministeri a Brasilia per un allarme bomba» [1] In Brasile «la democrazia si è consolidata ed è stabile. I giovani sono quasi pienamente occupati e la questione razziale è praticamente inesistente, essendo il Brasile abituato a una pacifica convivenza di etnie diverse. Ma se si va a guardare ai numeri dell’economia qualcosa non torna. I brasiliani pagano le tasse più alte tra tutti i Paesi in via di sviluppo (una media del 36%) e in cambio hanno servizi pubblici ai limiti della decenza. Come se non bastasse, la criminalità è ancora molto presente, così come la corruzione a diverse livelli della società e della burocrazia. A San Paolo (la Milano del Brasile) un impiegato con un stipendio minimo spende un quinto del suo salario per recarsi al lavoro su mezzi pubblici obsoleti e sovraffollati, che collegano le periferie al cuore della città. Per questo, quando il prezzo del biglietto del bus è aumentato la classica goccia ha fatto traboccare il vaso. A questo si aggiunge un’impennata dell’inflazione che non ha visto parimenti aumentare gli stipendi del ceto medio, maggioranza del Paese tenuta ancora a salari modesti. Immaginiamo circa 40 milioni di persone che nell’ultimo decennio passano da una condizione di assoluta povertà a una situazione di benessere. Nel 2009 per la prima volta le statistiche hanno indicato che più della metà della popolazione brasiliana può rientrare nella definizione che si dà di classe media. Adesso quella middle class, che solo fino a poco tempo fa era incredula di fronte a tutta la ricchezza in arrivo, si aspetta anche un ritorno in termini politici e governativi e ha preso coscienza di quello che può chiedere e di quello che le spetta. Non solo un’automobile da comprare a rate, ma anche servizi pubblici adeguati a un ceto che si è lasciato alle spalle la povertà e che guarda al futuro con occhi pieni di ottimismo. E forse il trionfalismo del governo per i mondiali di Calcio non è stato mandato giù. Meglio ospedali efficienti che spogliatoi alla moda per i campioni del pallone. Maturare e diventare un paese sempre più sviluppato per la classe media significa anche questo. Meglio autobus decenti e poco costosi che la Copa, dicono a Rio. Ed è la prima volta». [3] Le spese per i futuri Mondiali di calcio hanno fatto deflagrare la protesta: si parla di 11 miliardi di euro in totale. Per questo, nonostante il fatto che i calciatori della Seleçao abbiano appoggiato le manifestazioni, la gente urla anche «Mondiale no grazie», oppure «un professore vale molto più di Neymar» oppure «Dilma, non investire sulla Fifa, investi su di me». Ce n’è ancora, per il presidente, in vertiginoso calo di consensi a 15 mesi dalle elezioni presidenziali: «O povo na rua, Dilma a colpa è sua» («se il popolo è in strada la colpa è di Dilma»). [1] «Voluta o meno, la coincidenza temporale tra il risveglio sociale e un evento planetario come la Confederations Cup di calcio sta diventando un incubo per le autorità e il governo di Dilma Rousseff. Nonostante nel torneo tutto si stia svolgendo normalmente – partite e logistica – stanno venendo a galla le diffidenze di un organismo come la Fifa nei confronti del Brasile. Giornali e siti locali hanno rivelato che la cupola del calcio mondiale avrebbe addirittura minacciato di sospendere il torneo, se non fosse stata garantita la sicurezza delle squadre. La Fifa ha smentito. “Mai discusso nulla del genere, chiediamo però che ci garantiscano la sicurezza. Se ce l’hanno con noi, siamo l’obiettivo sbagliato”». [2] Fernando Duarte, guru del giornalismo sportivo brasiliano: «È una grande notizia: da noi il calcio non è più sacro. Una volta la semplice presenza di giocatori del calibro di Neymar avrebbe placato gli animi della gente. Non è più così». «La Rivoluzione dell’Aceto [...] non si ferma davanti ai palleggi di Neymar e alle progressioni dell’incredibile Hulk. Sfida i templi del futebol, dal Maracanã allo stadio Garrincha, e alza un’ola di furore quando il segretario generale della Fifa, Jerome Valcke, osa dire che tutto tornerà tranquillo se la squadra verdeoro arriverà alla finale di questa Coppa delle Confederazioni. Ma Valcke si sbaglia perché “il calcio non è più sacro” se la nazionale degli 11 dei è costretta a volare allo stadio di Brasilia anziché prendere il pullman. Il mare di folla che normalmente li osanna adesso alza barricate al loro passaggio. Le marce verso il Parlamento non sono niente di nuovo, scrive il guru Duarte. Le barricate erette sulla strada dove passa la Seleção sono una vera rivoluzione. Una retrocessione inconcepibile nella scala dei simboli nazionali. Come perdere 10 a 0 contro Tahiti». [4] La Conferenza episcopale è preoccupatissima per la sicurezza di Papa Francesco, che tra un mese arriverà proprio a Rio de Janeiro per partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù [5] Dilma Rousseff, in un discorso alla nazione a reti unificate, ha fatto capire di essere pronta al pugno di ferro se la protesta che sta dilagando nel paese continuerà a degenerare in scontri violenti («ascolto tutte le persone che sono scese in strada per manifestare pacificamente, ma il mio governo non può tollerare la violenza, che sta dando una cattiva immagine del Brasile») e nel contempo ha teso la mano ai manifestanti, mostrando di aver colto il malessere profondo che ha dato origine alla «primavera tropicale»: «Presto vareremo un grande piano in tre punti per migliorare i servizi pubblici: destineremo il 6% delle entrate petrolifere all’istruzione, faremo arrivare medici dall’estero per coprire le carenze della sanità e faremo un piano nazionale per la mobilità». Sui Mondiali del 2014: «Organizzeremo un grande Mondiale il prossimo anno: dobbiamo trattare con riguardo i nostri ospiti, come sempre siamo stati trattati bene noi in tutte le edizioni del Mondiale di calcio. Siamo l’unica squadra ad aver disputato tutte le edizioni dei Mondiali di calcio e ad averle vinte cinque volte. Faremo un grande Mondiale, ne sono sicura. E vi assicuro che il denaro per la costruzione degli stadi non ha sottratto risorse all’istruzione o alla sanità». [6] Note: [1] Andrea Sorrentino, la Repubblica 22/6; [2] Rocco Cotroneo, Corriere della Sera 22/6; [3] Anna Mazzone, Panorama.it 21/6 [4] Michele Farina, Corriere della Sera 22/6 [5] Paolo Manzo, La Stampa 22/6 [6] Tutti i giornali del 22/6