Melania Mazzucco, la Repubblica 23/6/2013, 23 giugno 2013
Quelli che non si sentono all’altezza di un impegno, o non sanno lavorare sotto pressione e non riescono a concentrarsi se intorno c’è rumore, dovrebbero andare nella Cappella Sistina, fermarsi al centro dell’enorme sala, piegare il collo e guardare in alto
Quelli che non si sentono all’altezza di un impegno, o non sanno lavorare sotto pressione e non riescono a concentrarsi se intorno c’è rumore, dovrebbero andare nella Cappella Sistina, fermarsi al centro dell’enorme sala, piegare il collo e guardare in alto. La volta interamente affrescata è un tripudio di colori e immagini — alcune, come la Creazione di Adamo, talmente famose che le conosce anche chi non le ha mai viste coi suoi occhi. Tutte quelle storie della Genesi, i Profeti e le Sibille, i Putti (o Geni), le scene bibliche nelle vele, gli Antenati di Gesù nelle lunette, le ha dipinte in circa 520 giornate un uomo solo, riluttante, quasi controvoglia e incalzato ogni giorno a sbrigarsi e concludere, anche con la convincente minaccia di essere buttato giù dall’impalcatura in caso di disobbedienza. Quando Giulio II nel 1508 lo incaricò di affrescare il soffitto della cappella papale (allora più importante di San Pietro), Michelangelo tentò di sottrarsi. Non è la mia professione — si schermì, modestamente — sono uno scultore. Il papa non gli credette. Non era un teologo, piuttosto un politico e un generale, sicché non si effuse in spiegazioni dettagliate: si accontentava di qualche apostolo. Michelangelo — che aveva 33 anni — iniziò a pensare, studiare testi, disegnare, preparare i cartoni, poi montò i ponteggi in modo da non intralciare le funzioni religiose che dovevano continuare a svolgersi sotto di lui, e si accinse all’opera. Brontolando e protestando, litigò con tutti. Ma quell’impresa lo rivelò a se stesso — e presto anche al mondo. I suoi affreschi sarebbero diventati un paradigma della storia dell’arte, e considerati opera quasi divina. Di eccezionale chiarezza, plasticità, espressività. Opera perfetta, sottratta al tempo, fonte e matrice di ogni pittura possibile. Ancora oggi, chi si sofferma sugli Antenati di Gesù nelle lunette resta sbalordito dalla modernità di quella galleria di famiglie e coppie, abbigliate in vesti dai colori acidi e iridescenti, colte in attitudini quotidiane, le donne mentre si pettinano i capelli o dondolano una culla, gli uomini mentre leggono o si accingono a una rissa — secoli prima di Degas, Vermeer e anche Pasolini, perché il primo ragazzo di vita l’ha dipinto Michelangelo nel 1512, coi ricci da pecoraro e gli orecchini da bullo. La Creazione di Eva la dipinse nell’ottobre del 1511, quando ricominciò il lavoro dopo un’interruzione dovuta alla partenza del papa per la guerra. Procedeva a ritroso, dalle storie più recenti della Genesi verso l’origine. Così creò Eva prima di Adamo. Ma l’infernale fretta di Giulio II (non immotivata, peraltro: voleva vedere l’opera finita prima di morire, e vi riuscì a stento) aveva costretto Michelangelo a perfezionare la sua tecnica, la velocità esecutiva, la gestualità della pennellata (dipingeva in piedi, la «barba al cielo» e la testa arrovesciata, «con grande affanno e grandissima fatica», il pennello che gli sgocciolava sul viso), e anche a modificare il piano iconografico. Doveva semplificare l’immagine e ingrandire le figure, in modo che fossero perfettamente leggibili da terra, 20 metri più in basso, e scegliere con attenzione i colori — meglio se chiari e freddi — perché aiutassero a definire le forme. Prima di Eva, però, dipinse gli Ignudi. Come nelle scene precedenti (e in quelle successive), quattro Ignudi, ciascuno seduto su un plinto, incorniciano la scena biblica e sorreggono un medaglione bronzeo, che rappresenta a sua volta una scena biblica. Quei 20 giovani maschi nudi dalle carni sode, armoniosi, bellissimi — simmetrici e speculari, colti in ogni possibile torsione e inclinazione, in tensione muscolare, a riposo, simili e diversi come variazioni musicali — rappresentano il più straordinario campionario del linguaggio del corpo che sia mai stato realizzato. Non svolgono alcuna funzione narrativa, anzi volgono le spalle alla scena che inquadrano (o vi si intromettono con prepotenza): eppure non sono decorativi, ma necessari al senso dell’opera. Sono un omaggio alla bellezza del corpo dell’uomo — e dunque a Dio. Sono gli Ignudi a esaltare la bellezza della Creazione. Nella pratica dell’arte il nudo maschile rappresentava una prova di virtù. Dal vivo o dalla statuaria classica, era oggetto di studio, tappa di ogni apprendistato. La penuria di modelli femminili e un inveterato pregiudizio di genere sulla superiorità dell’anatomia e della bellezza virile condussero all’eccellenza la raffigurazione dell’uomo. Ma il nudo maschile non era oggetto di contemplazione. Il nudo femminile seduce, il nudo maschile turba. Nel 1522 papa Adriano VI rimase scandalizzato da quell’esibizione di carne fresca sulla volta della Cappella Sistina. La definì «una stufa di ignudi», e ne sollecitò la distruzione (fortunatamente morì prima di attuarla). Ma i maschi nudi hanno continuato a scandalizzare fino ai nostri giorni. Solo dopo aver dipinto i 4 magnifici Ignudi — di cui merita menzione quello con la bocca tumida e la fascia tra i capelli, verde come gli occhi inquieti, di una bellezza quasi oltraggiosa — Michelangelo passò alla storia vera e propria. La creazione di Eva dalla costola di Adamo è troppo nota e non necessita commento. I cultori di una lettura tipologica della volta la interpretano come l’allegoria della nascita della Chiesa. Ma Michelangelo rese Eva molto umana. Ai contemporanei piacque l’attitudine modesta della donna, che nasce sottomessa, inchinandosi, le mani giunte in preghiera. Io apprezzo il paesaggio sommario (appena creato, ma già riconoscibile nei suoi elementi: acqua, cielo, erba, pietra) e la monumentale figura dell’Eterno — arcaica, come un ricordo di Giotto. Avvolto in un manto rosso-viola (in gergo “morellone”), intento a benedire con mano enorme la sua creatura, sembra compresso nello spazio pittorico, che non può contenere la sua immensità. Ma apprezzo ancor più l’efebico Adamo dormiente. Ancora un Ignudo, abbandonato nel sonno. Innocente e ignaro, poggia la schiena su un tronco — che prefigura l’albero della vita, e le sventure che la dolce compagna sta per attirargli. L’umiltà di Eva trasuda riconoscenza per la grazia ricevuta di esistere. Tutto ciò, Michelangelo lo dipinse in 4 giorni. L’Eterno in un giorno solo. Non credete ai proverbi. Non sempre la fretta è cattiva consigliera.