Federico Rampini la Repubblica 23/6/2013, 23 giugno 2013
L’ultimo G8 è rimasto impotente di fronte alla carneficina in Siria, bloccato dal veto di Vladimir Putin
L’ultimo G8 è rimasto impotente di fronte alla carneficina in Siria, bloccato dal veto di Vladimir Putin. E non c’è neppure bisogno di essere una potenza come la Russia per beffare il club dei Grandi. Nelle stesse ore in cui il G8 lanciava una sfida mondiale contro l’evasione fiscale, il Parlamento svizzero ha stracciato gli accordi presi con l’Amministrazione Obama sul segreto bancario. Il piano di liberalizzazione degli scambi Usa-Ue, lanciato anch’esso al G8, è ostaggio della “eccezione culturale” francese. Intanto una nuova forma di guerra “asimmetrica”, quella condotta dai cyber-dissidenti come Julian Assange e Edward Snowden, dimostra i limiti della superpotenza americana: per offrire asilo politico ai super-ricercati si candidano con entusiasmo staterelli come Ecuador e Islanda, felici di dare uno schiaffo a Washington. Se il G8 è impotente, quale altra “geometria” delle relazioni internazionali può sostituirlo come cabina di regìa degli affari mondiali? Scordiamoci il mitico G2. Quell’idea di un direttorio America-Cina suscitò interesse nella crisi del 2008. Ma il vertice tra Barack Obama e Xi Jinping l’8 giugno in California ha confermato che tra i due colossi le diffidenze e rivalità superano i terreni d’intesa. In quanto ai Brics, il club degli emergenti sta incappando in una turbolenza economica che ne mette in luce le fragilità. Le rivolte in Brasile intaccano il prestigio dei “modelli” alternativi. È la nuova realtà del nostro tempo: l’epoca del G-Zero. A coniare questa nuova immagine è un esperto di geostrategia americano, Ian Bremmer che ha fondato il centro studi Eurasia Group. Il suo ultimo libro s’intitola Every Nation for Itself: Winners and Losers in a G-Zero World (“Ciascuna nazione per sé: vincitori e perdenti in un mondo G-Zero”). I primi esperimenti di direttorio internazionale nell’epoca contemporanea risalgono ai due shock petroliferi: 1973 e 1977. Comincia allora la consuetudine di riunire nel G-7 un summit rappresentativo dei grandi paesi industrializzati: Stati Uniti, Giappone, le quattro maggiori economie europee, con l’aggiunta del Canada. Era un club relativamente coeso, con interessi comuni, sotto la leadership americana. La guerra fredda con l’Urss aiutava a superare i contrasti interni. La nostalgia di quel mondo “ordinato”, con delle gerarchie evidenti, è rimasta incollata perfino ai suoi oppositori più fieri. Dai no-global fino ai movimenti anti-sistema come M5S, ancora oggi una vasta cultura del complotto continua a cercare delle “cupole” dove i potenti tramano per governare il mondo: Trilaterale, Bilderberg Group, Davos. Chi mitizza questi luoghi di ritrovo del Gotha politico-finanziario, è rimasto fermo a un’epoca dove l’establishment era più compatto, e più piccolo. L’ultimo tentativo di aggiornare l’architettura della governance globale fu fatto proprio dopo la crisi del 2008. Venne valorizzato il G-20: un club dove figurano i grandi emergenti come Cina, India e Brasile sembrò più adatto per concordare una strategia anti-recessiva efficace. Ma la storia del G-20 riproduce il dilemma già sperimentato dall’Unione europea con i suoi allargamenti: quel che si guadagna in rappresentatività, lo si perde nella coesione e nell’efficacia decisionista. Chi può ricordare oggi una decisione del G-20 messa davvero in pratica? Sulle risposte alla crisi le divergenze hanno fatto premio: tra il dirigismo cinese, il protezionismo indiano, il keynesismo di Obama, l’austerity europea. Le nuove regole della finanza, su cui il G-20 doveva avere un ruolo propulsivo, sono ancora inadeguate, spesso decise in ordine sparso: la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, per esempio, non è stata adottata dalle due maggiori piazze globali cioè New York e Londra. Bremmer ricorda una delle cause fondamentali dell’ingovernabilità globale: «Gli elettori nei paesi sviluppati come Usa, Germania, Gran Bretagna, Francia e Giappone vogliono che i loro leader si concentrino sulle sfide domestiche più che sui problemi internazionali». Il corto-circuito fra crisi dell’eurozona ed elezioni tedesche ne è un’illustrazione. L’ingovernabilità nazionale complica le cose: perfino nella superpotenza leader, gli Stati Uniti, il potere esecutivo è spesso indebolito dagli elettori che votano un Congresso antagonista rispetto al presidente. Altrettanto importante è il vuoto di leadership da parte degli emergenti. «Troppo presi dai loro problemi di sviluppo – sostiene Bremmer – Cina o India non sono pronte ad accettare gli oneri di una nuova responsabilità internazionale ». Questo è uno scenario tutt’altro che inedito. La storia ha già conosciuto epoche di transizione, in cui un’egemonia si affievolisce ma non ce n’è un’altra pronta a sostituirla. I declini degli imperi sono spesso stati delle transizioni lunghe, disordinate, instabili. Basta ricordare il lento tramonto dell’impero britannico, i suoi conflitti con la Germania per la supremazia europea, o con la Russia nel Grande Gioco per il controllo dell’Asia. Oggi l’America è in un evidente declino “relativo”: il sorpasso della Cina in termini di Pil è solo questione di anni, qualche decennio al massimo; la capacità di Washington di dettare la sua volontà al resto del mondo s’indebolisce a vista d’occhio. E tuttavia la Cina non è portatrice di “soft power”, non ha un progetto globale da proporre al resto del mondo, non è un laboratorio di idee e di utopie esportabili. Anzi, la natura autoritaria del suo sistema politico la conduce a gesti aggressivi – come le rivendicazioni territoriali contro Giappone, Filippine, Vietnam – che spaventano i suoi vicini. La relazione Usa-Cina resterà centrale, conferma Bremmer, e un suo peggioramento sarebbe catastrofico per il mondo intero; ma non è una relazione stabile, non può diventare l’architrave di un nuovo ordine. Perfino l’imminente autosufficienza energetica degli Stati Uniti crea più problemi di quanti ne risolve: una volta liberati dal bisogno d’importare gas e petrolio, gli elettori americani saranno sempre meno disposti a pagare per interventi da “super-poliziotto” nelle aree calde del Medio Oriente. «Non è inevitabile che sfoci in un disastro – conclude Bremmer – ma un mondo di G-Zero è per natura volatile e incerto». L’assenza di leadership si farà sentire proprio su quei terreni, come il cambiamento climatico, dove i singoli paesi sono troppo piccoli per agire da soli.