Andrea Bonanni, la Repubblica 23/6/2013, 23 giugno 2013
BRUXELLES
— Diciotto ore di maratona negoziale, conclusa alle quattro di mattina, non sono bastate ai ministri europei delle finanze per trovare un accordo sulla ripartizione delle perdite in caso di fallimento bancario. I ventisette si sono dati appuntamento a mercoledì prossimo, per cercare di trovare una soluzione in extremis prima del vertice dei capi di governo che il giorno dopo dovrebbe varare il provvedimento.
Si tratta di una decisione di fondamentale importanza per passare alla fase successiva dell’Unione bancaria ed evitare che siano i contribuenti, attraverso il denaro pubblico, a sopportare il peso dei fallimenti e delle ristrutturazioni degli istituti di credito.
Tra il 2008 e il 2011, gli Stati europei hanno speso quasi un terzo del loro Pil per salvare le banche travolte dalla crisi finanziaria ed evitare il collasso totale dell’economia: uno sforzo che ha messo in ginocchio Paesi come l’Irlanda, la Spagna e la Grecia, ma che ha comunque fatto saltare i conti pubblici di Belgio, Olanda, Francia e Gran Bretagna. Con la crisi di Cipro, anch’essa travolta dal fallimento delle proprie banche, si è deciso di ripartire gli oneri del salvataggio anche sui privati.
Ma proprio la sciagurata gestione della crisi cipriota ha dimostrato
la necessità di avere regole precise e di stabilire una chiara gerarchia tra i vari attori chiamati a rispondere del fallimento.
In teoria, il meccanismo individuato dalla Commissione trova un largo consenso: i primi a pagare saranno ovviamente gli azionisti delle banche, poi i creditori non privilegiati, quindi i detentori di obbligazioni ’senior’, in ultimo dovranno contribuire anche i correntisti ma solo quelli che detengono depositi superiori ai centomila euro. Inoltre dovranno essere creati fondi di liquidazione accantonati dalle banche stesse che verranno utilizzati in caso di fallimento.
Il punto della discordia è nato sulla questione della flessibilità. Poiché questi criteri dovranno per ora essere applicati a livello nazionale, alcuni Paesi, con in testa la Francia appoggiata dalla Gran Bretagna, dalla Svezia, ma anche dall’Italia e dalla Spagna, hanno chiesto che venisse comunque consentito un certo margine di flessibilità nella definizione di chi paga e quanto. Parigi, per esempio, vorrebbe garantirsi la possibilità di proteggere i correntisti qualora si tratti di persone fisiche o di piccole e medie imprese. L’Italia non vorrebbe veder troppo penalizzati i detentori di obbligazioni per evitare una fuga dalla capitalizzazione delle banche. I Paesi fuori dall’euro, inoltre, invocano flessibilità per poter
compensare il mancato intervento del Fondo salva stati ESM, che proprio l’altro ieri è stato autorizzato a ricapitalizzare le banche dell’eurozona fino ad un limite di sessanta miliardi.
Di fronte a queste richieste, però, la Germania, spalleggiata da Olanda e Finlandia, si è dimostrata irremovibile. Nessuna flessibilità, dicono i tedeschi, per non alterare la concorrenza tra le banche sul mercato unico: se
un Paese offrisse condizioni più favorevoli, infatti, i suoi istituti di credito si troverebbero in vantaggio rispetto ai concorrenti oltreconfine.
Secondo tutti i partecipanti, lo spazio per trovare un compromesso tra le due