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 2013  giugno 17 Lunedì calendario

COSI’ IL «CAVALIERE» DI DURER DIVENTO’ L’ICONA EROICA DELLA DESTRA NOBILE E PERDUTA

COSI’ IL «CAVALIERE» DI DURER DIVENTO’ L’ICONA EROICA DELLA DESTRA NOBILE E PERDUTA -
Cinquecento anni fa nel cuo­re dell’Europa nacquero due gemelli separati della nascita. Uno voleva conqui­stare il potere, l’altro voleva conqui­stare l’anima del mondo. Era il 1513 quando vennero al mondo il Principe di Niccolò Machiavelli e il Cavaliere di Albrecht Dürer. Il primo conquistò il mondo, pur senza conquistare l’Italia che pur sognava di unire. Il secondo partì alla conquista di se stesso, sfidan­do la Morte e il Diavolo. Ambedue attraversarono l’inferno e aprirono il de­stino della modernità. Il Principe di­ventò il paradigma del Potere e cele­brò nell’opera di Machiavelli l’auto­nomia sovrana della politica. Il Cava­lie­re diventò la sua ombra vagante e celebrò nell’incisione di Dürer la solitu­dine eroica e disperata. Le due figure furono il riassunto epico e tragico del­la condizione umana che ha perso il cielo. Il primo insegnò l’arte di vince­re, il secondo insegnò l’arte di perdere. Del Principe si parla ormai da cin­que secoli; del suo gemello solitario, invece, si ammirò il ritratto, il suo ince­dere ardito e il suo sorriso ironico ma senza spingersi oltre, a scrutare nel­l’animo del Cavaliere. Chi lo fece, ven­ne molto dopo. Fu uno scrittore fran­cese nato a Carcassonne nel sud della Francia, dove visse estati torride e in­verni di vento violento, poi partì per Parigi «con una valigetta in legno e l’accento della mia terra», studiò filo­sofia «che spero di aver dimenticata» e lavorò da giornalista e scrittore con registi, ballerini, coreografi, attori e to­reri. Morì il 18 giugno del 1993, giusto vent’anni fa. Si chiamava Jean Cau, era stato segretario personale di Sartre per dieci anni, «facevo parte dei re­parti d’assalto dell’intelligenza di sini­stra», insignito da giovane del premio Goncourt per il suo libro La pietà di Dio (tradotto nel 1961 da Mondadori). Ma un giorno, tornando dalla guerra d’Al­geria, si conver­tì all’onore e alla tradizio­ne. Combat­té contro la decadenza della Fran­cia e dell’Eu­ropa, schiaccia­ta tra l’america­nizzazione e il co­munismo sovietico, av­versò il ’68. Gli estremi del de­grado erano per lui la gioventù droga­ta e la tecnocrazia al potere. Da allora Jean Cau diventò quel Cavaliere solita­rio e in disparte, dannato all’inferno e alla morte civile. Scrisse opere taglienti, come Il Papa è morto e Le Scuderie dell’Occidente, pubblicate in Italia da Volpe, e celebrò la corrida in un cele­bre libro, Toro (edito in Italia da Longanesi) dedicato ai suoi amici matado­res, banderilleros e picadores. Non mancò di scrivere un ardito elogio del Che (Passione per Che Guevara, Val­lecchi, 2004), che esaltò come un Co­mandante intrepido, un artista, insomma un Cavaliere che sfida la mor­te e il diavolo. Per lui, il Che andò a cercar la bella morte: «Ci sono mille modi di suicidar­si. Balzac scelse il caf­fè, Verlaine l’assen­zio, Rimbaud l’Etio­pia, l’Occidente la de­mocrazia, e Guevara la giungla». Cau lasciò uno splendido testamento idea­le con una prefazione di Alain de Benoist, che uscì postumo in Italia col titolo I popoli, la decadenza, gli dei (ed. Settecolori). Ma l’opera che rias­sume la sua visione del mondo fu pro­prio quella dedicata all’incisione di Durer, Il Cavaliere la morte e il diavolo (1977), che dopo Volpe ripubblicai al­la metà degli anni ot­tanta con la prefa­zione di un grande artista e incisore af­fine a lui, Sigfrido Bartolini. In questi giorni il sito Barbadillo si è ricordato di Cau proponendo on line uno scrit­to sul Cavaliere di Dürer, a lui ispirato, di Dominique Venner, lo scrittore sui­cida un mese fa in Notre-Dame. Il Ca­valiere di Dürer, riletto da Cau, costi­tuì un breviario del pessimismo eroi­co che animò la gioventù di destra de­gli anni settanta. Era la cultura aristo­cratica della nobile sconfitta, eroica e disperata, che si nutriva dell’Autarca di Evola e dell’Anarca di Jünger, il ri­belle che passa al bosco. Oggi il suo de­striero per attraversare la foresta sa­rebbe il web. Ma chi era il Cavaliere di Dürer nel­la visione di Cau? Era «un mostro di fer­ro, di carne e di spirito», che avanza con la sua armatura e il suo destriero in un paesaggio di rovine, spavaldo e incurante dei pericoli. «Stamattina, al nostro appuntamento all’alba, il mio cavaliere mi ha detto che poco impor­ta la meta e la ragione del suo viaggio, purché una cupa ostinazione gli indu­risca il cuore». Mai fermarsi, chi si fer­ma nella foresta è perduto. L’arte per lui è il canto per esorcizzare la morte. Egli sa che più si ama la vita più si sfida la morte. Ogni grandezza, spiega Cau, è costretta ad avere la morte per com­pagna. Il suo portamento naturale si chiama nobiltà. Nulla è più bello del­l’uomo quando avanza, osa, rischia; ma è un avanzare verso il Nulla, avver­te Cau. Nichilismo eroico e solitario. Anche se poi Cau dice che il Cavaliere ha appuntamento con Dio, contro il Diavolo. Coltiva l’aspro gusto sulle labbra di morire per una causa vinta. Il Cavaliere, per Cau, conosce la stra­na tristezza dei vittoriosi e la melanco­nia che inva­de il soldato dopo la vitto­ria. La stessa tristezza che segue l’amo­re post coi­tum.
Ciò che vale nella vita non è la vita stessa, sostie­ne Cau, ma ciò che se ne fa; l’Occiden­te sta perden­do la sua vita per volerla sal­vare.
Fedele alla sua solitudi­ne, Cau come i sessantotti­ni che dete­stava, rifiutò il matrimo­nio e i figli, ri­tenendo se stesso ancora bambino, proprio co­me loro. Colti­vò una destra come stile, « strettamen­te persona­le... è la mia pelle, i miei gesti, il mio re­spiro». Ammi­se che la sua morale asso­luta, in purez­za, finiva per esser vuota perché scon­nessa dal mondo. Non si è felici quando non si ama la pro­pria epoca, scrive Cau, e «io ascoltavo il vento dei passati perduti». Ma la sua solitudine pur eroica era figlia di quell’indivi­dualismo che è l’essenza della moder­nità occidentale. Il suo Cavaliere re­sta il volto tragico dell’umanità mo­derna che ha perduto il cielo e la terra e si barrica nell’individualismo eroi­co. A vent’anni me ne innamorai, ma subito dopo me ne allontanai per tor­nare alla realtà e al mondo con le sue imperfezioni e ritrovare la gioia di vi­vere senza dimenticare la nobiltà estetica e spirituale del suo tragitto. L’individualismo eroico rischia di mutare in astio e rancore, come ac­cadde a tante destre «strettamente personali». Scrissi allora, per esorciz­zare il suo fascino, che «era tempo di tornare nel frangente a rischiare la propria nobiltà nella polverosa mise­ria dei giorni». Distinguevo l’arte,che è da solisti, dalla storia, che è corale. Il Cavaliere di Dürer-Cau resta inciso nel cuore, ma non indica la via. Esalta l’estetica, traccia uno stile ma non può ispirare la vita, la storia e il pensie­ro. Così salvaii vent’anni dal suo forte richiamo, ma non misi a riparo i cinquanta.