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 2013  giugno 21 Venerdì calendario

COSI’ L’EUROPA SI MANGIA I NOSTRI SOLDI AL TERZO MONDO

Il ritornello dell’Italia ultima ruota del carrozzone occidentale nel campo degli aiu­ti lo conoscono tutti. Pochi san­no, però, che i soldi pubblici per lo sviluppo finiscono in gran par­te nella casse dell’Unione euro­pea e di istituzioni finanziarie in­ternazionali. Solo il 13,4% dei 1895,4 milioni di euro previsti per il 2013 verranno gestiti diret­tamente dalla Cooperazione e dal ministero degli Esteri. Nel 2011 i paesi donatori aderenti al­l’Ocse (Organizzazione per la co­operazione e lo sviluppo economico) indirizzavano invece il 70% al canale bilaterale. Ovvero trattavano direttamente con i paesi beneficiari con un indub­bio guadagno geopolitico. La distorsione degli aiuti allo sviluppo è stata sollevata di re­cente all’interno di Confindu­stria Assafrica e Mediterraneo, l’associazione per lo sviluppo delle imprese italiane in queste aree delicate.
L’Italia nel 2013 stanzia in tota­le 1895,4 milioni di euro per l’«aiuto pubblico allo sviluppo». L’86,6%di questa cifra viene de­stinata dal ministero delle Fi­nanze al canale multilaterale. In pratica 1346 milioni vanno a fini­re all’Unione europea, nel poz­zo senza fondo di Bruxelles e altri 295 alle istituzioni finanziarie internazionali come le banche di sviluppo. Questo secondo im­porto è probabilmente sottosti­mato e non include i contributi alle agenzie delle Nazioni Unite, un’altra piccola voragine che fa bella l’Onu, ma di meno l’Italia.
«Per il volontariato italiano il fatto che l’86% del nostro aiuto pubblico allo sviluppo sia gesti­to all’estero è un disastro - sotto­linea una fonte del Giornale in Confindustria Assafrica e Medi­terraneo - Inoltre viene disatte­so uno degli obiettivi della legge vigente secondo la quale questo denaro deve essere anche uno strumento della politica estera italiana».
Al contrario deleghiamo a Bruxelles l’utilizzo del grosso dei nostri soldi per lo sviluppo anche in aree strategiche come l’altra sponda del Mediterra­neo. Al canale bilaterale gestito direttamente rimangono le bri­ciole: 254,4 milioni di euro. Stia­mo parlando di appena il 13,4% della torta. Secondo i dati del Co­mitato dell’assistenza allo svi­luppo dell’Ocse, nel 2011 i paesi aderenti hanno indirizzato il 70% degli aiuti al canale bilatera­le.
L’Italia non riesce neppure a seguire l’esempio francese e te­desco di «cooperazione delega­ta» ovvero gestione dei fondi di aiuto per conto della Commis­sione europea. Il problema è che l’ente delegato deve cofi­nanziare il progetto. Impresa ar­dua ten­endo conto che la Farne­sina ha fondi limitati a causa del­l’ «altruismo» verso Bruxelles. Nelle 35 pagine delle linee gui­da per il 2013-2015 della Coope­razione allo sviluppo non c’è al­cun cenno alla delega sui fondi comunitari.
L’analisi realizzata all’inter­no di Confindustria Assafrica punta il dito anche contro il mancato «ritorno» per le nostre aziende degli stanziamenti alla Ue. Dei 1346 milioni di euro pre­visti per quest’anno, 457 sono destinati al decimo Fes, il Fon­do europeo di sviluppo. Lo scor­so settembre è stata inviata a Bruxelles una nota assai critica sull’efficacia concreta del Fon­do da Confindustria Assafrica assieme alle associazioni simili di Germania e Francia. «L’uni­co progetto di rilievo finanziato dal Fes, che ha avuto come pro­motore un’azienda italiana di rilievo è un parco eolico di Enel Green Power in Messico realiz­zato, peraltro, con impianti di origine spagnola» stigmatizza la fonte del Giornale.
Solo il tradizionale dinami­smo delle nostre medie impre­se ci ha dato qualche soddisfa­zione, ma appena sul 20% del Fondo europeo destinato ai progetti.
L’intera politica degli aiuti al­lo sviluppo va rivista anche nell’ottica di un sistema cresciuto a dismisura. Secondo un censi­mento della Banca mondiale si contano 33 importanti paesi do­natori, in base a requisiti occi­dentali, 40 agenzie delle Nazio­ni Unite, 24 banche di sviluppo e 280 agenzie bilaterali. Oltre a 250 fondi o agenzie di esecuzio­ne dei progetti di rilievo (un cen­tinaio solo nel settore sanita­rio). A questa Babele umanita­ria va aggiunto un numero imprecisato di Ong e fondazioni private. «Un complesso buro­cratico-finanziario degli aiuti formato da un esercito di mezzo milione di persone - spiega la fonte del Giornale - che va pro­fondamente ripensato in termi­ni di efficienza e di criteri per le politiche di sviluppo.