Giuliano Aluffi, il Venerdì 21/6/2013, 21 giugno 2013
LA PREVALENZA DELLE PAROLACCE
Dagli ossessivi «Vaffa...» di Grillo al «ci sono froci in nazionale» di Antonio Cassano, dalle «troie in Parlamento» di Franco Battiato per finire col recentissimo «bisogna governare con le palle» del premier Enrico Letta, gli ultimi tempi hanno visto un ritorno folgorante della parolaccia nel discorso pubblico. La sensazione generale è quella di un’involuzione del linguaggio, un ritorno a un passato più crudo. Del resto la parolaccia, ossia il bisogno di esprimere simbolicamente la nostra ira piuttosto che passare alle vie di fatto (e qui c’è un’indubbia evoluzione), potrebbe addirittura precedere l’uomo: «Quando sono arrabbiati, gli scimpanzé hanno un modo di alzare la mano sulla testa, grugnendo, che è palesemente aggressivo. Ma al tempo stesso sostituisce una vera aggressione, perché, quando aggrediscono davvero, gli scimpanzé non perdono tempo coi gesti» spiega Frans de Waal, etologo e primatologo alla Emory University di Atlanta.
A ricostruire origine e sviluppi del gergo volgare è oggi un saggio di Melissa Mohr, ricercatrice di letteratura a Stanford: Holy Sh*t: a Brief History of Swearing (Oxford University Press). Che conferma come trivialità e storia dell’uomo siano un tutt’uno. «Non c’è differenza tra oggi e impero romano. Sul muro di una casa pompeiana si legge: Fortunate, animula dulcis, perfututor (O Fortunato, anima dolce, superfottitore!)» ricorda Melissa Mohr. «E perfino il mite Catullo inizia con l’oscena dichiarazione di intenti pedicabo ego vos et irrumabo (offrendosi come parte attiva di rapporti contro natura) il suo Carmen XVI in risposta a persone che gli avevano dato dell’effemminato. Poi con l’affermarsi del Cristianesimo e per la maggior parte del Medioevo le parole più offensive in Europa divennero quelle che, chiamando in causa Dio, potevano ferirlo fisicamente, come i giuramenti per le ossa di...».
Anche la più antica parolaccia scritta compare in un giuramento, che coinvolge entità celesti ma anche assai terrene: un asino. Lo riporta Magnus Ljung, docente di letteratura inglese all’Università di Stoccolma, in Swearing: a cross-cultural linguistic study (Palgrave Macmillan, 2011). Si tratta di un’iscrizione su una stele dell’era di Ramsete III (tra il 1198 e il 1166 avanti Cristo) oggi conservata all’Ashmolean Museum di Oxford: ci informa che un certo Harentbia donerà cinque pani al giorno in onore del padre defunto, e che l’incaricato delle offerte, se non seguirà le istruzioni di Harentbia, incorrerà nella punizione di Amon e avrà un rapporto carnale con un somaro. «Animale che solo nel diciottesimo secolo gli inglesi cominciano a chiamare donkey. Questo perché il vocabolo originario, ass (da asinus), richiama troppo per assonanza la parola arse, ossia il sedere, diventato tabù» spiega Melissa Mohr. Niente sesso, siamo inglesi, insomma. E infatti saranno proprio i londinesi a sviluppare un inventivo slang rimato – raccolto nel Dictionary of Rhyming Slang – da Julian Franklyn nel 1960 che aiuta a offendere di nascosto. Insegna per esempio a dire king per suggerire King Lear e alludere quindi, per rima, a queer («checca»).
Altre volte sono gli eventi più tragici della storia a trovare posto nel dizionario «proibito»: se nel 1303 la parola pestilence in Inghilterra si usa in senso letterale, nel 1386, finita l’epidemia, diventa imprecazione. Ma non delle più forti. A differenza di quello che avveniva in età greca e romana, nel Medioevo affiora poi una nuova sensibilità. «Certe parole sono tabù soprattutto perché possono indurre al peccato. E questo continuerà fino al Rinascimento» spiega Mohr. «Thomas Elyot, nel 1538, racconta i tormenti dei lessicografi del tempo, combattuti tra il voler includere nei loro dizionari il maggior numero di termini e l’impulso a omettere "parole lascive" che potevano "risvegliare desideri sopiti". Elyot sceglie di inserire nel suo dizionario le parole tabù solo se provviste di forma latina (ad esempio vulva) tralasciando i corrispettivi inglesi».
Tempi ancora più duri per il turpiloquio con l’affermarsi della borghesia. «Nei secoli XVIII e XIX la classe media cerca di distinguersi da quelle inferiori usando un linguaggio più lindo. Nel XX secolo però le parolacce tornano in voga e studiosi come Geoffrey Hughes e Ruth Wajnryb sottolineano come durante le guerre mondiali si imprecasse di più» osserva Mohr.
La guerra in Vietnam, saldandosi ai movimenti hippy, genera invece slogan come Fuck the pigs! (i pigs erano i poliziotti) con i quali gli studenti radical a Berkeley iniziano a politicizzare la parolaccia. E parecchi anni dopo, ma in un certo senso sulla stessa strada, arriva il boom della musica rap, veicolo sì di turpiloquio ma anche di emancipazione.
Che la storia delle parolacce si intrecci con quella della lotta per i diritti lo dimostra anche un aneddoto del 1939. «Nella sceneggiatura di Via col vento erano previste battute con l’epiteto razziale nigger, non vietato dal Motion Picture Production Code del 1930, che pure era parecchio restrittivo e stigmatizzava il "me ne infischio" di Rhett Butler» spiega Mohr. «Ma alla fine l’insulto non entrò nella pellicola, perché gli attori afroamericani del film si opposero».
La sconfitta della parolaccia è stata spesso associata a una vittoria della civiltà. Con qualche ingenuità. «Nel 1973 la filologa jugoslava Olga Penavin prevedeva che la diffusione del socialismo avrebbe fatto estinguere le parolacce» dice Mohr «ma qui qualcosa non è andata per il verso giusto se oggi gli insulti in russo formano un intero linguaggio, detto mat. Il linguista Alexei Plutser-Sarno lo sta raccogliendo in volumi, e il primo volume basta appena per i soli derivati della parola khuy (membro maschile)».
Insomma, le parolacce trionfano? A rigor di matematica sembrerebbe di no. «Solo lo 0,7 per cento delle nostre parole è una parolaccia. E due terzi sono dette per ira e frustrazione» spiega Timothy Jay, docente di psicologia al Massachusetts College of Liberal Arts, che da 30 anni studia il tema, con la collega Catherine Caldwell-Harris, docente di psicologia alla Boston University. Però le parolacce rimangono più impresse del resto. «Producono veri effetti fisici» spiega Caldwell-Harris, «accelerano il battito cardiaco e innalzano la conduttività elettrica della pelle. Soprattutto se le diciamo nella nostra lingua. Se usiamo una lingua straniera, gli effetti fisici sono più attenuati. Questo perché è solo nella nostra lingua che le parolacce sono associate nella memoria alle emozioni passate». «Grazie» alle parolacce ricordiamo le cose in maniera diversa, più profonda, più acritica e primitiva. «Questo perché, quando ci arriva un messaggio che comprende parole scurrili, si attiva l’amigdala – parte del cervello che gestisce emozioni come la paura – e in questo modo il concetto si scolpisce direttamente nell’ippocampo. Si tratta di un apprendimento immediato. Diverso da quello più lento e faticoso, per esempio dello studio scolastico, che coinvolge la corteccia prefrontale e richiede che l’attenzione sia focalizzata. Quindi, se si vuole passare a una platea un messaggio facilmente ricordabile, è efficace un linguaggio altamente emotivo e denso di parole tabù. Dagli esperimenti di Jay emerge infatti che quando leggiamo una lista di parole, quelle che ricordiamo di più sono quelle oscene».
Che questo sia il segreto di Grillo? Sembra confermarlo Nick Haslam, docente di psicologia all’Università di Melbourne e autore di Psychology in the bathroom (2012, Palgrave Macmillan). «Gli insulti attirano l’attenzione, la sequestrano. Poi comunicano forti emozioni, e ciò suggerisce che il messaggio venga da qualcuno che crede davvero a ciò che dice e ha forti principi. In certi casi, come nei discorsi politici, le parolacce creano un legame con la gente comune. In tutto il mondo i politici sono percepiti come classe autoreferenziale e distaccata dai problemi quotidiani: il linguaggio scurrile stabilisce una connessione diretta col popolo». Del resto fu proprio uno dei presidenti americani più populisti, Harry Truman, a dire nel 1961: «Ho mandato via il generale MacArthur perché non rispettava l’autorità del Presidente, non perché fosse quello stupido figlio di puttana che è».
Giuliano Aluffi