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 2013  giugno 21 Venerdì calendario

RAZZA CORSARA


Non pensate ai Buddenbrook. Per descrivere Emilio Riva e la sua dinastia bisogna piuttosto scendere nei climi più temperati di Giovanni Verga e al Mazzarò della Roba, un uomo basso con una grossa pancia e «ricco come un maiale». Emilio Riva, ragioniere ottantasettenne, non è grasso, è un uomo minuto con una voce roca, ma è sì «ricco come un maiale». Di sicuro non somiglia all’autentico Padrone delle ferriere, come Gianni Dragoni ha intitolato un pur esaustivo ebook a lui dedicato, perché il personaggio del romanzo di Georges Ohnet in realtà è un uomo onesto, generoso e amato dai suoi operai. Ma che gli operai possano amare Riva è un’ipotesi irragionevole, non solo per il disastro umano, ecologico e industriale cui ha condotto l’Ilva di Taranto, ma anche perché i casi di paternalismo peloso e di arrogante autoritarismo che ti senti raccontare sono un’antologia praticamente sconfinata. Quando nel 1975 fu arrestato per omicidio colposo a causa di un incidente sul lavoro, annunciò la chiusura della sua acciaieria di Caronno Pertusella finché non lo avessero rimesso in libertà. Poi, tra i cento episodi, c’è la storia della «palazzina del disonore», come la ha chiamata Dragoni. Cos’è? Una spettrale costruzione all’interno dell’acciaieria di Taranto, dove rinchiuse 79 lavoratori senza alcuna mansione, soprattutto impiegati che non avevano accettato di passare alla qualifica di operai. Un anno e mezzo dopo, in seguito a una segnalazione dell’Ispettorato del lavoro, dovette arrivare un magistrato con i carabinieri per liberarli e mettere i sigilli al possibile «corpo del reato». Riva fu condannato con sentenza definitiva a un anno e sei mesi per aver usato uno «strumento coartatorio servito per liberarsi, a mo’ di vera e propria decimazione, di un certo numero di impiegati». Così sentenziò la Cassazione.
Emilio Riva non fa parte di quella che con aulica supponenza si è autodefinita «ala nobile» del capitalismo italiano. E se ne è sempre gloriato. Non partecipa ai riti confindustriali, non ha gli uffici in torri vitree al centro di Milano, ma in un posto un po’ squallido in fondo a viale Certosa, verso le autostrade. Per lui c’è un «capitalismo di carta», quello delle partecipazioni incrociate e dei patti azionari, e quello «di ferro». Il suo.
In una delle rarissime apparizioni in Confindustria prese di petto Calisto Tanzi, il bancarottiere di Parmalat: «Vede, signor Tanzi» gli fece fissandolo negli occhi, «se io la prendo per i piedi e la scrollo, dalle sue tasche esce tanta tanta carta. Se invece è lei a prendere me per i piedi, dalle mie tasche escono tanti, tanti soldi».
È vero, Riva-Mazzarò di soldi sonanti ne ha fatti assai da quando negli anni Cinquanta faceva il rottamaio insieme al fratello Adriano, vendendo ferraglia alle acciaierie del Bresciano. Ma al contrario di quanto ama dire non li ha sempre reinvestiti nelle sue aziende, molti miliardi hanno preso la via dell’estero a costituire un piramidale tesoretto familiare. E quando li ha reinvestiti, spesso ha sbagliato. Non solo non mettendo in sicurezza l’acciaieria di Taranto, corrompendo e mettendo a rischio la salute di un’intera città, ma non spendendo le centinaia di milioni necessari per migliorare la qualità degli acciai in un mercato mondiale sempre più sofisticato. I ricercatori del Centro sviluppo materiali che stavano conducendo studi su un impianto pilota innovativo furono cacciati in pochi giorni. Così i conti migliorarono, ma la qualità no, tanto che gli acciai dell’Ilva non vanno più bene per fare le carrozzerie delle auto.
Non sbagliò invece Riva a comprare l’Ilva dall’Iri presieduto da Romano Prodi per 1.460 miliardi di lire. Ripulita di settemila miliardi di debiti della vecchia Ilva, la nuova società per il boom dei prezzi cominciò a produrre utili al ritmo di 100 miliardi di lire al mese. «L’età del ferro non è mai finita», disse mentre per lui incedeva l’età dell’oro e per Taranto l’età della rovina.
Ma al padrone per antonomasia non andrà altrettanto bene quando nel 2008, cedendo alle lusinghe di Silvio Berlusconi, entrò tra i patrioti a difesa dell’italianità e puntò 120 milioni di euro sul salvataggio dell’Alitalia. Tutti i «capitani coraggiosi» che con lui risposero all’appello dell’allora premier sapevano benissimo che quel salvataggio era impossibile, ma calcolarono che investire su Berlusconi avrebbe comunque reso in altri modi.
E infatti il rottamaio dal braccino corto ottenne dal governo l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), per la quale lottò come una leonessa Stefania Prestigiacomo, l’allora ministra dell’Ambiente che consultava il piduista Luigi Bisignani per muovere ogni passo. La Commissione Aia incaricata di redigere il verdetto fu riempita di ignoti personaggi, soprattutto siciliani come la ministra, che ne nominò presidente tale Fabio Ticali, un trentenne autore di una pubblicazione sul ravaneto, che è nelle cave di pietra quel luogo in pendenza dove si accumulano i detriti.
Un industriale così acceso dal fuoco schumpeteriano (dall’economista austriaco Joseph Schumpeter) da diffidare della politica? «Non ho mai accettato relazioni particolari con nessuno: sindacati, chiesa, partiti politici», ha detto una volta. Ma per carità. Il contrario è provato non solo dall’Alitalia, ma dal fatto che la Procura di Taranto ha trovato pagamenti a sindacalisti, preti, giornalisti. E ai partiti.
Vittorio Malaguti ha segnalato nel 2006-2007 pagamenti (regolari) per 245 mila euro a Forza Italia e per 98 mila a Pier Luigi Bersani. Difficile credere che sia stato un caso unico. Tanto più che l’amministrazione dell’Ilva è stata per anni assai disinvolta, per usare un eufemismo, con la famiglia che prendeva a piene mani, come dimostra il super-tesoretto all’estero. Non siamo noi a dirlo, ma gli stessi soci di Vicenza, la famiglia Amenduni, azionista dell’Ilva con il 10 per cento del capitale fin dalla privatizzazione della siderurgia di Stato. Nelle assemblee gli Amenduni richiedono da tempo chiarimenti sulle tante consulenze oscure. Invano.
Il capostipite Emilio ha sei figli, due femmine e quattro maschi. Il più grande, Fabio, è (o era, visto che la famiglia è ormai al capolinea) il numero due del gruppo; Claudio pare che si sia scontrato con il padre padrone ed è andato a occuparsi delle attività armatoriali; Nicola finito agli arresti col vecchio Emilio, si occupa della produzione e Daniele dello stabilimento di Genova. Lavorano in azienda anche i nipoti Angelo, Cesare e Emilio, mentre le figlie e le nuore stanno a casa o fanno altro.
Per il calcolo delle probabilità bisogna pensare che in un grande casato non tutti siano votati a una forma di capitalismo muscolare e vessatorio con gli operai, insensibile ai danni prodotti all’ambiente e alla salute dei cittadini e miope nell’innovazione industriale. Certamente non tutti sono dei Riva-Mazzarò. Ma un po’ del capostipite qualcuno di loro lo ha preso. Emilio, un nipote omonimo del nonno, parlando col padre Fabio dopo un incontro con Nichi Vendola, suggerisce: «Facciamo un comunicato stampa fuorviante, tanto per vendere fumo, dicendo che va tutto bene e che l’Ilva collabora con la Regione». Buon sangue non mente. E Fabio, il primogenito al telefono: «Che saranno mai due casi di cancro in più? Una minchiata».
Alberto Statera