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 2013  giugno 21 Venerdì calendario

IL SOVRANO NERO CHE REGNA TRA LE FOGLIE DI COCA


BUENOS AIRES. Dittatori, autocrati, militari. Un po’ di tutto ha avuto la giovane storia dell’America latina, prima di accarezzare la democrazia. Tutto tranne monarchi. Fatta eccezione per il sangue blu sopravvissuto al crollo dei Borbone nel Nuovo Mondo. Un’insolita monarchia nel cuore del Sudamerica, riconosciuta dalla Costituzione della Bolivia.
A quattro ore da La Paz, capitale boliviana, c’è Mururata, paesino della provincia di Nor Yungas. Avvolto nella folta vegetazione siede sul trono Julio Pinedo, l’ultimo re delle Americhe. Sei anni fa, le medesime autorità democratiche della Bolivia hanno proclamato questo umile agricoltore Re degli afroboliviani, con tanto di corona. Prima d’incoronarlo col nome di Bonifacio II, il governatore di La Paz ha spulciato fino in fondo l’albero genealogico del nuovo sovrano. La nobiltà africana ritrovava così il suo anello mancante. Un antenato di Pinedo – nome ereditato dai negrieri – sbarcò come schiavo durante la colonia spagnola, portato dal Congo per le miniere di Potosì. Fu un re tribale svanito nella folla. A quei tempi, in mezzo alla compravendita di persone, gli spagnoli ignoravano che ci fosse un tale leader. Gli schiavi, però, non lo persero mai di vista.
Quei primi servi, antenato reale compreso, non resistettero all’alta quota dell’Altiplano boliviano. Furono trasferiti nella più bassa Yungas, terra fertile per la foglia di coca ma ostile per i nuovi ospiti: niente per loro eccetto lavoro pesante. Ed è così che ancora oggi, pur lavorando dall’alba al tramonto, i sudditi non hanno altro che il loro re. Solo con l’avvento del presidente indio Evo Morales questa minoranza è stata riconosciuta e incorporata nella Carta Magna. «Prima non eravamo considerati nemmeno boliviani» ricorda un membro della etnia afro.
Nel regno di Bonifacio convivono due civiltà: gli afroamericani, circa 35 mila figli del continente nero; e gli aymaras, amerindios che popolano il sud del Perù, Bolivia, nord del Cile e Argentina. Entrambe le culture mantengono da cinque secoli una coesistenza pacifica tra foglie di coca, coltivazioni di caffè e agrumi. «Il mio regno per un cavallo!» urlava agonizzante Riccardo III, di Shakespeare, quando si ritrovò solo nel campo di battaglia. Bonifacio, invece, di cavalli ne ha tanti. Gli mancano le terre su cui edificare il suo regno, che siede su territori concentrati in poche mani e mai sfruttati. Vorrebbe scambiarli per forza di lavoro: l’asso nella manica per far leva sulla riforma agraria di Morales.
Intanto, a 60 anni, il Re sudamericano sopravvive con un piccolo alimentare al pianoterra di casa. «Si vendono gelati» dice il cartello all’ingresso. Lì Pinedo tiene la foglia di coca, da lui stesso coltivata. La sua dimora è incompiuta, con mattoni ancora esposti. Tutt’altro che palazzo reale. Angelica Larrea, sua moglie, frequenta corsi serali. La regina fa fatica a leggere e scrivere. La coppia reale non ha avuto figli. L’eredità ricadrà sul nipotino Ronaldo, primo re mulatto. Uomo di poche parole, ma taglienti come lama, Julio prende il machete e va verso la sua piantagione di coca. La corona in ottone dorato resta nell’armadio. Indossarla è un’ostentazione che raramente può permettersi.