Elisabetta Rosaspina, Sette 21/6/2013, 21 giugno 2013
«PER ME SHAKESPEARE HA LA FACCIA DI ORSON»
[Oja Kodar]
Si capisce perché Orson Welles si sia innamorato di lei. E perché il grande regista non si sia mai stancato di averla accanto negli ultimi 23 anni della sua vita. Soltanto una donna imprevedibile e geniale, come Oja Kodar, può affermare temerariamente: «Il mio Otello ideale? Mike Tyson». Il pugile? «Sì, proprio lui. Ho saputo che gli sarebbe piaciuto recitare quella parte e penso che sarebbe stato effettivamente un buon Otello».
Insomma. Tyson è pur sempre stato in carcere per stupro e lesioni: «Lo so. Forse sono pazza. Ma vedo quest’uomo, a dispetto delle sue caratteristiche, come qualcuno che deve avere un cuore tenero, sentimenti autentici, fragilità». Uno capace di staccare con un morso l’orecchio del suo avversario? «Per me questa non è una prova di brutalità, ma di debolezza», poi Oja Kodar si corregge: «Anzi, di vulnerabilità. Ecco, vulnerabilità è il termine esatto. Mi sembra un uomo che può lasciarsi facilmente ferire».
Non ci sarà Tyson in scena, il prossimo 10 luglio, nel cortile di Palazzo Ducale, a Venezia, per la prima dell’Otello allestito dal teatro La Fenice. Ma l’attrice, scrittrice, scultrice e regista croata che cinquant’anni fa fulminò il cuore del maestro di Quarto potere, non intende mancare all’appuntamento con Giuseppe Verdi e, soprattutto, con Shakespeare e con i luoghi dove l’indimenticato compagno di vita e di lavoro girò il suo Otello, più di sessant’anni fa, dieci prima di conoscerla. Dichiarò Oja, quando il regista era già scomparso: «Se un altro uomo, dopo Orson Welles, cercasse di parlarmi di Shakespeare sarebbe una tragedia, per me e per lui». Lo pensa ancora? «Lo penso ancora», assicura. «Orson è stato l’unico uomo che sapesse parlarmi di Shakespeare. Oggi come allora, Shakespeare è per me solamente lui, Orson Welles».
Nel 1952, l’anno dell’Otello di Welles, Oja Kodar non si chiamava ancora Kodar, “dono” in croato, il cognome artistico che avrebbe ricevuto da Orson. Era una bambina di undici anni che vagava con la madre, insegnante, e due sorelle per una Jugoslavia in rovina, al seguito del padre, l’architetto Palinkas, di cantiere in cantiere. Imparando che si soffre meno se non si mettono radici. Nel 1962 avrebbe incontrato a Zagabria Orson Welles, impegnato nelle riprese de Il processo, dal romanzo incompiuto di Kafka, durante una serata al più celebre hotel della città, L’Esplanade. La ventunenne Oja, di una bellezza spettacolare, frequentava i corsi di scultura all’Accademia di Belle Arti. Il già famoso regista statunitense aveva 47 anni, due ex mogli, tra cui la monumentale Gilda, Rita Hayworth, e una terza consorte in carica, la contessa italiana Paola Mori di Girifal-
co, dalla quale formalmente non divorziò mai. E, in più, contava una figlia da ciascuna di loro.
A differenza di Otello e Desdemona, la nuova coppia di amanti seppe tenere a bada la gelosia: «Non mi sono mai crucciata per il suo passato», assicura l’ultima compagna, «certo mi sarei risentita forse se si fosse interessato a un’altra donna ma il nostro fu davvero un amore esclusivo. Neppure Orson era geloso di me. Magari partivo da sola, per andare a trovare un’amica ad Acapulco, e lui mi esortava a portarmi gli abiti e i gioielli più belli, mi aiutava a scegliere quelli che mi stavano meglio, mi raccomandava di divertirmi il più possibile».
Per l’uomo che aveva convinto gli americani dello sbarco dei marziani sul pianeta, non fu difficile convincere Oja a seguirlo a Hollywood e poi in giro per il mondo, di set in set. Spesso senza i soldi sufficienti per portare a termine i loro “cantieri” cinematografici. Ma lei era addestrata alla bisogna: «Sono cresciuta senza mai attaccarmi ai luoghi, agli oggetti, alle persone perché tanto sapevo che, prima o poi, sarei stata inevitabilmente obbligata a lasciarli. Non sono possessiva. In questo, io e lui, eravamo molto simili. Le poche cose sue che ho conservato sono i suoi disegni, fogli di carta che lui appallottolava e gettava e io recuperavo dalla spazzatura». Case, luoghi, brevi ricchezze passavano nella loro vita senza lasciare il segno. Erano i sogni e i progetti a tenerli uniti. Nessun rimpianto per la bella residenza di Orvilliers, vicino a Parigi, dove vissero e lavorarono insieme fino al 1972, e dove lui girò il documentario autobiografico Filming Othello: «Venduta, quando Orson era ancora vivo. Sono tornata a vederla una quindicina d’anni fa. Era diroccata, occupata da squatter. L’anziana proprietaria era morta, perfino il bellissimo camino in marmo era stato divelto e rubato».
Il suo approdo, dopo tanto girovagare, è a Primosten, sul mare della Croazia: «Sono tornata qui perché ho trovato i fondi per costruire il Memorial Center di Orson Welles, nel centro del paese: sarà museo, sala d’esposizioni, auditorium per concerti. Non è enorme, ma sufficiente: è il mio piccolo Taj Mahal». I finanziamenti dell’Unione europea sono in arrivo, spiega, dopo sei anni di battaglie: «Ma ho un progetto ancora più grande, per il quale sono pronta a vendere la mia casa: la scuola di cinema che sognava lui. A me non interessa la ricchezza, metto sempre gli stessi abiti, mangio semplicemente. Tutto quel che guadagnavamo, con Orson, lo investivamo in altri progetti. Peccato che lui sia morto senza vedere questo nuovo mondo tecnologico». Gli sarebbe piaciuto? «Gli avrebbe dato una grande libertà, perché adesso è molto più economico girare un film e così non dipenderebbe più finanziariamente dai produttori. Ci starà guardando da una nuvoletta, frustrato perché non può sperimentare i nuovi strumenti».
Dov’è la sua tomba? «Esattamente non lo so, e non voglio saperlo. Nella finca di un torero, forse Luis Dominguín, in Spagna. Voleva essere sepolto a Chinchon, vicino a Madrid, ma la famiglia ha deciso diversamente ed è stato cremato. Non importa: nella mia mente lui è sempre qui con me».