Vittorio Zincone, Sette 21/6/2013, 21 giugno 2013
«È LA PAURA DEI FONDAMENTALISMI IL GRANDE NEMICO DELL’UMANITÀ»
[Wole Soyinka]
Wole Soyinka, nigeriano, 78 anni, ha un’afro capigliatura argentata (tipo quella del leggendario manager della boxe Don King) e un Nobel per la letteratura nel cassetto. Il suo editore e amico Rex Collings lo ha definito “un uomo universale”: poeta, commediografo, romanziere, critico, insegnante, regista e politico. Dovendo scegliere, lui si autodefinisce “essenzialmente un drammaturgo”. Soyinka è un miscelatore di culture e linguaggi: nelle sue opere ha unito la tradizione dell’etnia Yoruba con la tragedia greca e con le avanguardie del Novecento. È un globetrotter culturale: vive in Nigeria, collabora con la Loyola Marymount University di Los Angeles ed è spesso in Europa e in Asia ospite di convegni e di conferenze. Un paio di anni fa, a Genova, durante il Festival Internazionale di Poesia, a chi gli chiedeva come si dovrebbe comportare l’Occidente con l’Africa, rispose: «Non credo negli aiuti, ma nelle relazioni di mutuo e reciproco profitto. Le donazioni non sono salutari, sono una forma più sofisticata della carità fatta ai lati delle strade. L’Africa ha tante risorse da cui trarre ricchezza. L’Occidente ha la tecnologia e l’esperienza, noi le materie prime. Allora sediamoci a un tavolo e parliamo di sviluppo reciproco».
Soyinka parla un inglese accademico, cadenzato con lentezza. L’intervista si svolge tra Londra e la costa occidentale africana per telefono, via email e con rapidi sms.
In questi giorni è ospite della Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e arte, che quest’anno è dedicata al “segreto”. Partiamo da qui.
Soyinka, è legittimo che uno Stato nasconda qualcosa ai propri cittadini? Che abbia, cioè, dei segreti?
«Nemmeno il consiglio di un minuscolo villaggio africano si può permettere di vivere senza segreti. Non credo che esista un governo che possa funzionare senza averne».
Un politico può avere dei segreti o dovrebbe vivere in una casa di vetro, nella più completa trasparenza?
«Distinguiamo: una cosa sono i segreti, un’altra la privacy. Tutti gli esseri umani hanno diritto a una vita privata. La dimensione pubblica non può invadere tutti gli spazi».
Sveli un suo segreto. Anche piccolo.
«Ma le pare? Smetterebbe di essere un segreto».
C’è qualcuno a cui lei confida i suoi segreti?
«No. Non li confido a nessuno».
Non può rivelare nemmeno se la sua scrittura sia un dono naturale o il frutto di un lungo esercizio?
«Scrivere è la prova definitiva che c’è una traccia di masochismo in ognuno di noi».
È vero che lei ha cominciato a vincere premi letterari sin da piccolo?
«Sì. Anche se non ricordo esattamente a che età ho vinto il primo. Se vuole le dico quando ho cominciato a leggere».
Quando?
«Mia madre e mio padre mi hanno mostrato il primo test di lettura che ho fatto a due anni e mezzo».
Mi racconta la sua infanzia?
«Mio padre era insegnante in una missione anglicana. Mia madre aveva un negozio ed era attivista in un movimento per i diritti delle donne. Io ho sempre letto e scritto molto».
Poi ha lasciato la Nigeria e si è trasferito a Leeds, in Inghilterra.
«Vinsi una borsa di studio in Letteratura inglese. Un’occasione».
A 23 anni, nel 1957, mise in scena lo spettacolo L’invenzione, prodotto dal Royal Court Theatre.
«Avevo realizzato testi teatrali e diretto piccole compagnie anche prima. Ma vedere quello spettacolo in un teatro “vero” fu un’esperienza incredibile. Anche se non fu esattamente una produzione di successo!».
Il successo arrivò con La danza della Foresta, realizzato nel 1960: una presa in giro della classe dirigente nigeriana e della disonestà rimasta inalterata nel passaggio dal colonialismo all’indipendenza.
«Era un lavoro molto denso. Non so se oggi lo rifarei allo stesso modo. La mia testa, allora, viveva un fermento incontrollato. Volevo bombardare il palco con la mia lussuria creativa. E poi ero politicamente in allarme. Vedevo i segni di un disastro che incombeva sul mio Paese e volevo gridarlo forte».
Lei è noto per il suo impegno politico.
«Ma non stimo chi pensa che l’arte debba essere per forza engagée. Ogni scrittore resti fedele alla sua sensibilità creativa e ci offra la consolazione di cui abbiamo bisogno per evadere dalle nostre esistenze così malconce. Come spettatore non amo le prediche e quando ascolto la musica non cerco un messaggio sociale».
Già, ma la sua produzione…
«Ho scritto anche pezzi senza critiche sociali. Pensi che noia un mondo in cui tutta l’arte fosse impegnata: che dieta prevedibile ci toccherebbe! Dopodiché, certo, il mio temperamento è quello che è: sono un combattente compulsivo».
L’arte come cura per chi è malato di indifferenza o di disimpegno.
«Distinguere, distinguere».
In che senso?
«Disimpegno e indifferenza sono risposte molto diverse tra loro alle anomalie che affliggono una società. Ho incontrato molte persone “indifferenti” nella mia vita. E ammetto che mi spaventano. Il disimpegno, invece, è una scelta. Una scelta consapevole che viene dopo il riconoscimento di qualcosa di inaccettabile. C’è una forma di onestà nel disimpegno: l’ammissione, franca, di non avere né la forza né gli strumenti per aggiustare una determinata situazione. E ci possono essere varie ragioni per scegliere di non impegnarsi. Monaci, monache e anacoreti di tutti i tipi hanno optato per il disimpegno dal mondo. Meditano. Parecchi scrivono poesie. L’importante è non pretendere di essere più efficaci non impegnandosi piuttosto che impegnandosi».
Lei ha scritto: «L’uomo muore in tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia». Ma non tutti possono essere eroi e immolarsi sull’altare della lotta contro il dittatore.
«Per questo c’è chi sceglie il disimpegno. Se non ti accorgi di vivere sotto una tirannia, non hai bisogno di essere eroico».
Una volta ha detto che di fronte a un potere feroce è necessario usare un linguaggio molto duro.
«La lingua può essere usata come una bomba a mano dialettica. E fatta esplodere sotto le poltrone comode dei governanti corrotti e compiacenti. O sotto quelle di certi Capi di Stato africani che, ubriachi di potere, si trasformano in dittatori».
L’ubriacatura da potere non è un problema solo africano…
«No, certo. Bisognerebbe inventare un sistema di disintossicazione dal potere, come quello degli Alcolisti Anonimi, con periodi di ritiro per tutti quelli che lo hanno assaggiato e ne sono diventati dipendenti. Ci vorrebbe una cura anche per chi ama giocare pericolosamente con la paura».
Si spieghi meglio.
«Una vera democrazia non dovrebbe avere bisogno di impaurire i cittadini. La paura va più in profondità della politica. Va oltre le moschee e le chiese».
La paura secondo Soyinka.
«La paura è il prodotto della guerra costante tra potere e libertà. Tra i più sinistri seminatori di paure, oggi, ci sono le spore fondamentaliste allevate nelle chiese e nelle moschee. Negli ultimi tempi soprattutto nelle moschee. Ci sono segnali e prove un po’ ovunque, in qualsiasi società. L’ultima battaglia dell’umanità probabilmente consisterà proprio nel liberare il mondo dal nesso tra fondamentalismi e paure».
Esagerato.
«Ben oltre le dittature laiche, quelle teocratiche sono spietate e senza scrupoli. Basta vedere che cosa è successo in Afghanistan, o in Somalia. Basta osservare che cosa succede nella mia Nigeria proprio mentre stiamo parlando».
Lei in Nigeria ha fondato un partito, Il Fronte democratico per una federazione dei popoli.
«Ne ho guidato la formazione, non l’ho fondato. Si tratta di un movimento rivolto a quella generazione di giovani disillusi dalla configurazione dei partiti esistenti e non disponibili a far parte di un sistema corrotto. Per me è stato un bel grattacapo. Non volevano accettare il fatto che non aspirassi a una poltrona. E sono rimasti ancora più sconvolti quando ho negato loro la possibilità di usare la mia immagine per la campagna elettorale. Attualmente non ricopro più alcun incarico nel partito, anche se sono un fiero militante. Abbiamo un manifesto molto radicale».
Negli oltre cinquant’anni di militanza cultural-politica in Nigeria, lei è stato messo in prigione, “caricato” dalla polizia e condannato a morte. Nel 1986 ha vinto il Nobel per la Letteratura.
«Non sono mai stato veramente sicuro dei miei sentimenti nei confronti di quel premio».
Perché?
«È un premio talmente pesante che ti intontisce. Ti lascia privo di sentimenti genuini. Ci sono soddisfazioni più grandi».
Come portare in scena i ragazzi delle gang giamaicane di Kingston?
«Esatto. Non voglio sottovalutare l’importanza del Nobel, ma lavorare con quei ragazzi, allattare la loro creatività latente, mi ha dato una soddisfazione maggiore».
Soddisfazioni. Lei tiene lezioni e conferenze in tutto il
mondo.
«Già, sono abbastanza impegnato».
Per molto tempo ha insegnato anche a Las Vegas.
«Alla University of Nevada. L’ho lasciata cinque anni fa».
Si concedeva qualche puntata nei casinò?
«Non esattamente. Ma ho sempre pensato che si debba partecipare ai riti e alle usanze presenti nelle culture dei luoghi visitati. Quindi…».
Quindi?
«Quindi ogni anno mettevo da parte dieci dollari e li cambiavo in monetine. Ogni volta che andavo all’aeroporto o in un ristorante che ospitava una slot machine scommettevo qualche centesimo. Se alla fine dell’anno mi restava qualche moneta, annunciavo a tutti gli amici di aver sbancato Las Vegas».
Com’è il suo rapporto con la critica?
«Buono».
Qualche anno fa ha scritto un pamphlet contro alcuni critici nigeriani. Li soprannominò “tarzanisti”.
«Il termine era riferito ad alcuni intellettuali. Si erano autoproclamati “critici nazionalisti neri” e sostenevano che gli africani si dovessero occupare solo di gonnellini di paglia e seni nudi. Erano fascisti, almeno quanto i marxisti che dichiaravano che i nostri artisti dovevano scrivere solo di lotta di classe, imperialismo e neo-colonialismo».
A cena col nemico?
«Che cosa vuol dire?».
C’è una persona non amica con cui andrebbe a cena?
«Accomodarsi a tavola con un vero e proprio nemico? Qualcuno come il dittatore nigeriano Sani Abacha, che io consideravo uno psicopatico? Con lui l’avrei fatto solo per discutere la modalità con cui ucciderci a vicenda».
Lei usa Facebook?
«Assolutamente no».
Cinguetta su Twitter?
«No. E non ho nemmeno un blog».
Però esiste un suo profilo su Facebook.
«Lo so, ma io non mi sono mai collegato. Mi chiedo: ma le persone che frequentano Facebook conoscono veramente il valore della privacy?».
Vittorio Zincone