Lorenzo Cremonesi, Sette 21/6/2013, 21 giugno 2013
IN AFGHANISTAN IL FUTURO È SOLO UNA FRAGILE ILLUSIONE
Per Omeir Bahar la «mattina più tragica della mia vita» fu quella del 17 dicembre 2012. Si consumò in una manciata di secondi: il camion carico con 2.600 chilogrammi di dinamite si lancia a tutta velocità contro i capannoni della sua azienda alla periferia di Kabul, travolge le transenne in metallo, fa fuggire un paio di poliziotti di guardia. Il mezzo supera le fragili difese offerte dallo Stato, infine esplode nello spazio ristretto che divide l’area delle celle frigorifere, contenenti il raccolto di frutta fornito da oltre 35.000 tra piccole fattorie e coltivatori individuali per tutto l’anno scorso, dalla zona dei grandi macchinari per la confezione di succhi di frutta, bevande in lattina e concentrati. «In un lampo di fuoco la mia azienda ha perso oltre otto milioni di dollari. Per pura fortuna non ci sono stati morti, solo una decina di feriti fra gli operai», racconta Bahar, che a 48 anni si è trovato a dover ricostruire dalle macerie la sua fabbrica, considerata una delle più redditizie del Paese. «Siamo stati bravi. Con le nostre forze abbiamo rimesso in piedi la catena di produzione. Tanto che in autunno saremo già in grado di vendere sul mercato le bevande confezionate dal raccolto di quest’anno», spiega fiero. Ma per lui il vero colpo basso è stato scoprire la totale impotenza dello Stato. «I talebani hanno attaccato la nostra azienda perché rappresenta un bastione di stabilità. Produciamo oltre 70 milioni di litri di bevande all’anno, oltre la metà è destinata all’esportazione. Dare lavoro alla popolazione, alimentare la crescita economica, diffondere benessere sono le armi migliori per combattere la guerriglia estremista. Loro lo sanno bene. Per questo ci fanno la guerra. Ma i nostri politici se ne fottono. Avrebbero dovuto correre per darci assistenza, garantirci i prestiti delle banche, magari aiuti statali per le vittime del terrorismo. E invece sono venuti soltanto a chiederci le mazzette di dollari per non intralciare la ricostruzione. Corrotti, arroganti e impuniti. Ma che importa a loro! Tanto, se le cose dovessero davvero andare male, hanno tutti casa, conti in banca e famiglia all’estero. Per loro il nuovo Afghanistan è una vacca da mungere. Quando la manna sarà finita, spariranno al seguito dei soldati del contingente internazionale che se ne tornano a casa».
53 gli italiani morti. Un caso noto, quello di Omaid Bahar. È considerato uno degli uomini più ricchi dell’Afghanistan. Lo incontriamo a una cena in uno dei più esclusivi ristoranti della nuova Kabul, costruita negli ultimi anni con l’aiuto della comunità internazionale nel contesto di un viaggio organizzato per la stampa dai comandi Nato. Ci aspettavamo una testimonianza tutta improntata all’ottimismo, ringraziamenti per la missione internazionale e speranze per un futuro da Paese capace di stare sulle proprie gambe da solo. E invece Bahar si dimostra spaventato, dubbioso sulle capacità di tenuta delle nuove autorità e soprattutto preoccupato per la minaccia del ritorno della violenza su larga scala. Ha un bel dire il numero due della missione Nato-Isaf, il generale inglese Nick Patrick Carter, il quale durante un’intervista nel quartiere generale nella capitale ammette a denti stretti che il ritiro dei contingenti Nato (previsto entro la fine del 2014) sarà caratterizzato da una certa dose di «stabile instabilità». Un modo gentile per dire che certo vi saranno attentati da parte talebana, ma i 352.000 uomini tra esercito e polizia afgani addestrati dagli istruttori Nato alla fine saranno in grado di gestire il Paese. È la stessa immagine di efficientismo discreto e affabile che prevale tra gli alti dirigenti Nato incontrati a Kabul. Mostrano tabelle, statistiche tutte improntate ai «giganteschi passi avanti compiuti dalle nuove forze di sicurezza locali»; ti portano a visitare i nuovi centri di addestramento, i parchi automezzi appena arrivati da Europa e Stati Uniti. E promettono che «presto qui i talebani troveranno pane per i loro denti». Sul campo le cose appaiono però molto diverse. L’«offensiva di primavera» talebana promette un’estate torrida. Sono le prove generali per l’anno prossimo? Gli attacchi degli ultimi giorni parlano da soli: l’8 giugno ha perso la vita in un attentato a Farah il capitano dei Bersaglieri Giuseppe La Rosa, il 53esimo caduto dall’arrivo del contingente italiano nel 2004. Superano ormai quota 5.000 i morti Nato-Isaf dalla guerra del 2001. Lunedì 10 giugno hanno preso di mira l’aeroporto militare e internazionale di Kabul, il luogo-simbolo per eccellenza del nuovo corso è dovuto restare bloccato per diverse ore con gli aerei in arrivo dirottati a Mazar El Sharif. E il giorno dopo un commando si è scagliato contro l’edificio della Corte Suprema, posto a poche decine di metri dal comando Nato e dall’ambasciata Usa, causando 16 morti e una quarantina di feriti. Tra gli occidentali sempre più trincerati a Kabul cresce la sindrome da accerchiamento molto simile a quella che prevaleva nella “zona verde” di Baghdad sette od otto anni fa.
I talebani in agguato. Non stupisce dunque che tra gli abitanti della capitale il pessimismo sia di casa. Con l’aggiunta di una nota di scetticismo in più alimentata dalla considerazione per cui tutt’ora il 75 per cento dei circa 25 milioni di afgani vive di un’economia agricola molto primitiva sparsa tra campagne e vallate remote. Se nella Kabul moderna e aperta al mondo ora come non mai la popolazione teme apertamente il ritorno di «talebani e vecchi signori della guerra», viene spontaneo ritenere che la grande maggioranza degli afgani sia già rassegnata a ricadere nelle logiche tribali che dominarono il Paese dopo il ritiro sovietico, quasi un quarto di secolo fa. I segni del panico ci sono tutti, continui, coerenti, persistenti. «Spero che alla fine Isaf decida di restare. Il suo lavoro non è affatto terminato. Dal Pakistan continuano le interferenze pro-talebane. Tante regioni restano tabù per la gente di Kabul. Sulle strade di montagna ci sono banditi, signorotti locali che dominano incontrastati», paventa Said Ashraf, proprietario trentenne di un negozio d’abbigliamento nel Golbhar Center, uno dei tanti mall cresciuti come funghi in tutta la città. Accanto a lui Mohammad Arek, 32 anni, proprietario di un centro per la vendita di computer, per spiegare la situazione ricorre a un antico proverbio pashtun della sua tribù, originaria delle montagne del Kunar, sul confine con le regioni tribali pakistane: «Una vipera cui è stata tagliata la coda diventa pericolosissima, cerca vendetta, va assolutamente uccisa. La Nato non può tirarsi indietro proprio adesso. Ha ferito i talebani, ma non li ha finiti. Il lavoro va terminato». A suo dire c’è l’85 per cento di possibilità che nel 2015 scoppi una nuova guerra civile. Tanto pessimismo gli deriva dalla conoscenza profonda delle sue tribù trincerate sulle montagne. «Gli Stati Uniti si stanno comportando come l’Urss, non difendono le strade, se ne vanno e ci lasciano alla mercé dei capetti locali». Se riuscisse, venderebbe il negozio. «Ma nessuno vuole comprarlo». Stessa solfa nel cosiddetto Mall Hares Plaza, un palazzone tutto cristalli e marmi pregiati, aperto da meno di un anno, dove si voleva creare un polo informatico d’avanguardia. «Da novembre affitto questo negozio per 3.000 dollari al mese. Me la sono cavata sino a marzo. Ma ora sono in bancarotta. Se ne vanno le organizzazioni non governative, le agenzie delle Nazioni Unite assottigliano gli elenchi dei dipendenti. Erano i clienti migliori per i nostri computer ultimo modello, come del resto le élite locali, che però a loro volta cercano impiego all’estero. Se va avanti in questo modo, entro fine estate vendo tutto e cerco un visto per l’Australia», afferma sconsolato il 34enne Alì Mashal.
Le più spaventate sono ovviamente quelle donne che oggi possono studiare e temono il ritorno dei “tempi bui”, quando l’educazione femminile era tabù in nome dell’Islam estremista. «Guai se i vostri soldati partiranno. Non potremo più andare a scuola», dicono all’unisono tre studentesse poco più che ventenni incontrate nei giardini dell’università. Vicino a loro siede su di una panchina Salima Itzhak, diciottenne, iscritta al primo corso della facoltà di lingue. «Lo sappiamo bene cosa vogliono fare di noi i talebani. Perché Kabul è un’isola felice, le donne possono studiare liberamente sin dal 2002. Ma a Kandahar, Hellmand, Kunduz, Ghazni, Paktika e le altre regioni dove il potere dello Stato centrale è vacillante, praticamente per le donne non è cambiato nulla dai tempi del Mullah Omar», afferma con un filo di voce. E Fatema Aziz, laureata in medicina e deputata al parlamento di Kabul, si dice “terrorizzata” dalla prospettiva che Isaf evacui le proprie basi. La incontriamo nel corso di una cena organizzata dalla Nato nella capitale, e anche lei lancia lo stesso messaggio di grande apprensione: «Da soli, senza i vostri soldati, noi non ce la faremo. Occorre che Karzai smetta di litigare con Washington e trovi un accordo per protrarre il vostro mandato». La paura di ricadere sotto il giogo della teocrazia estremista è tale che Aryana Sayeed, 28enne cantante rock che oggi su Tolo-tv (l’emittente più diffusa su tutto il territorio nazionale) raccoglie audience da capogiro con le sue nuove canzoni elaborate da antichi motivi popolari, usa come sottofondo filmati e fotografie della Kabul occidentalizzata degli anni Sessanta. «Voglio ricordare che esiste una tradizione afgana anche laica. Sto preparando una serie di nuove canzoni che esaltano la libertà delle donne», spiega.
I prezzi delle case sono in picchiata. Termometro privilegiato per quantificare la crisi di fiducia generalizzata sono le agenzie immobiliari. Tante hanno chiuso, molte lo stanno per fare. E dire che a metà dell’ultima decade erano vere galline dalle uova d’oro. Cercavi rassicurazioni sulla volontà di investire degli afgani anche dopo un grave attentato? Era sufficiente fare un salto in un’agenzia per vedere che i prezzi di terreni e abitazioni restavano in salita costante. Ora non più. «Da circa un anno e mezzo i prezzi sono in picchiata. Tutti vogliono vendere, nessuno compra. La gente vuole dollari in contanti, può scappare in ogni momento con la valigia piena e andare dovunque. Un appartamento, anche se di lusso nel quartiere più esclusivo, diventa macerie inutili se colpito da una bomba», dice Yama Sadat, 28 anni, dal 2009 comproprietario con tre soci, tra cui il fratello più giovane, di un’agenzia nei quartieri settentrionali. Il loro dramma è il dramma di un’intera generazione di giovani imprenditori che avevano scommesso sulla crescita generata dalla massiccia presenza di stranieri al seguito del contingente Isaf. «È vero che i prezzi a Kabul erano artificialmente impazziti a causa delle organizzazioni straniere pronte a sborsare qualsiasi cifra pur di abitare in centro città. Si era arrivati a pagare oltre 6.000 dollari al metro quadrato. I proprietari di tante ville ben protette hanno lucrato per anni su affitti superiori ai 15.000 dollari mensili, come se fossero a Manhattan! Ma ora i prezzi sono caduti del 50 per cento e la prospettiva è un’altra flessione del 30 per cento in vista della fine del 2014. Sino a dicembre vendevamo in media almeno tre grandi abitazioni al mese, da tre mesi non vendiamo nulla», aggiunge Yama. La Caporetto dell’immobiliare: il segno dell’atmosfera da “si salvi chi può” imperante un po’ dovunque.
Il problema appare però ingigantito quando incontri gli esponenti del governo e dell’amministrazione. Sindaco di Kabul è Nawandish Mohammed Younes, 56 anni, ingegnere civile, scelto tre anni fa direttamente dal presidente Hamid Karzai (non eletto, come vorrebbe la legge), che già nelle prime battute dell’intervista insiste sui suoi «poteri molto limitati». Cosa state facendo per la questione traffico, visto che la città è perennemente bloccata dalle automobili? «Non è compito nostro. Ci pensa il ministero degli Interni», replica secco. Un modo indiretto per farci capire che in verità nessuno cerca di rimediare al nodo del traffico. Ci sono giornate che occorrono due o tre ore per attraversare il centro; e con il caldo estivo e la mancanza di regolamenti sui gas di scappamento, spesso l’aria diventa irrespirabile. Lui è ben consapevole della questione. «Nel 1978 la città aveva un milione e mezzo di abitanti, ora stanno arrivando a sei. I veicoli sono passati da 30.000 a 700.000 e ogni giorno se ne aggiungono 200», dettaglia. Però va fiero dei suoi alberi: «Abbiamo costruito 23 giardini, fatto piantare 3,6 milioni di alberi». Il budget annuale municipale, 90 milioni di dollari, dipende quasi interamente dalle donazioni straniere, con Stati Uniti, Giappone, Turchia e Abu Dhabi in testa. «Se non ci fossero gli aiuti dall’estero saremmo in bancarotta», ammette. E le prospettive, in vista del ritiro di Isaf? «Ultimamente Karzai ha pubblicamente chiesto che gli americani mantengano almeno nove grandi basi anche dopo il ritiro. Speriamo che accettino».
È questa totale dipendenza dagli aiuti stranieri che lascia perplessi. La cinquantina di nazioni partecipanti al contingente Isaf è in generale vista dagli afgani come causa prima di tutto ciò che nel bene e nel male avviene nel Paese. L’assunzione delle proprie responsabilità resta un tabù culturale. I talebani stanno riguadagnando punti? Colpa di Isaf, che con la destra li combatte e la sinistra li finanzia. La produzione della droga è in aumento? Colpa degli occidentali, che ne favoriscono il mercato illegale. Il Pakistan aiuta Al Qaeda e i talebani? Colpa degli Stati Uniti, che li utilizzano per dominare il mondo e non frenano le autorità pakistane. L’economia è a rotoli? Colpa dei Paesi donatori, che non si sono messi d’accordo tra loro prima di cominciare i programmi di aiuti. Persino il fallimento delle elezioni presidenziali nell’estate del 2009, quando Karzai venne riconfermato solo grazie al massiccio ricorso ai brogli da parte dei suoi funzionari, nella narrativa che al momento va per la maggiore è da imputare ai Paesi donatori. Allora vennero presentate come «le prime elezioni gestite interamente dal nuovo governo afgano». Oggi sono raccontate come «un gigantesco flop dovuto alla incapacità degli stranieri».
Sostiene il ministro delle Finanze, Omar Zakhilwal: «Avete pagato troppo quel voto e gestito male i vostri soldi. Ho calcolato che, per i 365 milioni di dollari investiti in questa impresa, ogni singolo voto ci è costato 50 dollari. Uno spreco totale, specie se si pensa che in India la stessa voce di spesa si aggira tra uno e cinque centesimi». La sfida naturalmente è che le cose funzionino meglio alle prossime presidenziali previste per l’aprile 2014. Sarà il primo voto del nuovo ciclo democratico caratterizzato dall’assenza di Karzai, che per motivi costituzionali non può candidarsi.
Fondamentale diventa dunque l’addestramento delle nuove forze di sicurezza. Un programma immane, iniziato massicciamente nel 2010 e che oggi vede impegnate le energie migliori di Isaf. A Campo Zimmerman, situato tra le colline desertiche sulla strada che dalla capitale conduce a Jalalabad, una quarantina di istruttori Carabinieri della Seconda Brigata Mobile di stanza a Livorno assieme al Primo Reggimento Paracadutisti ha il compito di insegnare i rudimenti del mestiere alle reclute della polizia afgana. «Dall’inizio della nostra attività in questa base sono stati addestrati 11.000 uomini, circa 5.000 all’anno, in corsi specifici per 220 uomini della durata di otto settimane ciascuno. Si insegnano le tecniche dell’antiterrorismo, come evitare il ricorso eccessivo alla forza, il pronto soccorso», spiega il tenente colonnello Alessandro De Ferrari, 46 anni, di Roma. Non troppo lontano, tra i massicci muraglioni in cemento grezzo che circondano Campo Black Horse, istruttori inglesi e francesi si occupano invece dei quadri del nuovo esercito. Fiore all’occhiello delle sette squadre di pronto intervento veloce sono gli autoblindo M11-17, costruiti appositamente dall’americana Textron, sono quasi 700 e ognuno vale oltre un milione di dollari. Una cifra che da sola lascia intravedere i costi enormi dell’intero programma. In entrambi i campi tra le maggiori preoccupazioni sta la prevenzioni dei cosiddetti “green on blue”, i casi di aggressioni da parte delle reclute contro gli istruttori stranieri. Gli afgani sono tutti rigorosamente disarmati e quando vengono condotti al poligono di tiro sono scortati da decine di commando occidentali armati con il colpo in canna. Ma anche qui la destabilizzazione esterna si fa sentire. «Quasi nessuno dei nostri soldati esce dalla base per la libera uscita in divisa. Rischiano di essere uccisi assieme alle famiglie nei loro villaggi», ammette il colonnello Qudos Ghani, comandante degli afgani a Black Horse.
Caccia al visto per l’Italia. È come un brivido sottile. Ufficialmente parlano in pochi tra i soldati della fine del mandato Isaf tra meno di 18 mesi. Eppure domina i pensieri di tutti. «Saremo pronti a fronteggiare il nemico da soli. I talebani hanno paura di noi. Non ci confrontano mai a viso aperto», è la risposta ufficiale. Ma basta scavare un poco per cogliere le incertezze. «Se gli americani se ne vanno per noi finisce male», si sussurra in un gruppo di ufficiali che stanno imparando a smontare le componenti del cannoncino dei blindati.
Lo stesso capo di stato maggiore afgano, generale Sher Mohammad Karimi, 68 anni, ginnastica tutte le mattine, educato all’accademia inglese di Sandhurst, che è innamorato pazzo dei suoi nuovi blindati, ammette che la «nostra forza aerea per ora non esiste, magari comincerà a funzionare nel 2017». Dunque siete pronti ad affrontare il ritiro di Isaf? «Beh, non possiamo decidere noi per loro. Comunque avremo bisogno di assistenza per altri 10-14 anni», risponde infine. Lasciando le basi di addestramento dove operano i Carabinieri veniamo fermati da tre o quattro interpreti locali. Tutti si presentano con nome e cognome. Una volta sarebbero stati molto più riservati. Ma è chiaro che oggi hanno fretta di far conoscere i loro casi. «Occorre che l’Italia ci dia il visto di immigrazione. Qui verremo trucidati con le nostre famiglie appena saremo lasciati soli», dice tra gli altri Abdul Mobin, 27 anni, originario della vallata del Pansheer.
Accanto a lui Gulam Haider sostiene di aver lavorato con il contingente italiano sin dal 2006 e di essere stato minacciato più volte. «Tra Kabul ed Herat siamo una settantina noi traduttori che vorremmo venire in Italia quando il vostro contingente se ne andrà», chiedono. Dall’ambasciata rispondono che sono all’esame una decina di casi. Sembra che inglesi e americani saranno molto più generosi. Londra ha appena concesso visti per 600 traduttori. Ma certo il messaggio è inquietante: che razza di pacificazione, quale tipo di Stato sovrano, avremo lasciato alle nostre spalle se gli afgani che hanno lavorato con noi ora sono in pericolo di vita?
Lorenzo Cremonesi