Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 21 Venerdì calendario

È ORIGINARIO DI RECANATI, COME LEOPARDI. PAZZO PER LE COTOLETTE, DEDICA I GOL ALLA NONNA. IL CALCIATORE DEI RECORD CHE CAMBIA I PANNOLINI SVELA, PER LA PRIMA VOLTA, I SUOI SEGRETI


[Leo Messi]

«L’ha incorniciato, quel tovagliolo di carta?». «Quale?». «Quello su cui, dice la leggenda, l’allenatore che le aveva fatto il provino per il Barcellona firmò con suo papà il primo contratto per non rischiare di farsi scappare “el niño de oro”…». 
Leo Messi ride. «Sono sincero: non l’ho mai visto. Non sono neanche sicuro che esista. Lo so che ogni tanto scrivono di quel tovagliolo ma io, dico davvero, non l’ho mai visto…».
È una sera della tarda primavera. Il mare davanti alla trattoria sulla costa meridionale di Barcellona schiaffeggia pigramente la spiaggia, dominata da uno spuntone roccioso. Siamo dalle parti di Castelldefels, la cittadina catalana dove il fuoriclasse “blaugrana”, a dispetto della fama e della ricchezza, vive in una villa appartata e lontana mille miglia dalla movida delle Ramblas. Dal caos. Dalle discoteche. Dalle caffetterie alla moda. Dalle notti brave.
“La Pulce” è allegro. Rilassato. Apre curioso la busta che gli ho portato. Contiene la fotocopia di un vecchio “Cartellino di indice” del Comune di Recanati. È lo stato di famiglia di Angelo Messi, nato nel 1866 e domiciliato con la moglie Maria Latini in Valle Cantalupo, una povera contrada un paio di chilometri a nord della cittadina marchigiana.
«I nonni di mio papà, giusto?».
Non l’aveva mai visto?
«No».
Erano di Recanati, come Giacomo Leopardi.
«Chi era?».
Un grande poeta: «sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude»...
«Mai sentito. Mi dispiace».
Magari conosce la Madonna di Loreto. È lì vicino…
«No. Mi dispiace. Dov’è?».
Marche. Italia centrale. Mai avuto la curiosità di andare a vedere da dove arrivavano i nonni?
«No. Credo che mio papà conosca il posto. Che sia stato lì e abbia incontrato i nostri parenti. Magari un giorno ci andrò anch’io».
Sarà stato almeno a vedere l’“Hotel de Inmigrantes” di Buenos Aires. Dove dopo lo sbarco venivano ammassati gli italiani, come a Ellis Island…
«No, non lo conosco».
Guarda le vecchie foto in bianco e nero di quei poveretti venuti via dalla miseria per cercare fortuna nella pampa. Donne austere con lo scialle e le lunghe gonne nere. Bambini smunti e scalzi. Enormi pentoloni per il rancio. Uomini in giacchetta scura, camicia bianca e borsalino. Gli sguardi perduti nel vuoto che sarebbero stati cantati in Foxtrot della nostalgia… È la prima volta, a quanto pare, che il più grande giocatore del mondo vede quelle immagini del suo passato remoto.
In casa non si parla mai dell’Italia?
«No. Mai. Però può essere che ora ne parleremo».
Eppure un pezzo di lei è italiano.
«È vero. Tanti argentini sono anche un po’ italiani. Anche mia mamma, Celia Cuccitini, lo è. E anche la mia compagna, Antonella Roccuzzo…».
Parla di Minnie?
«In che senso, Minnie?».
Siete insieme da sempre! Praticamente, hanno scritto, fate coppia come Topolino e Minnie…
«Sì, ci conosciamo da quando avevamo sei anni».
Praticamente è assediato da italiani.
«Praticamente».
Lei è di Rosario, la città di Che Guevara: che rapporti ha con quella figura che campeggia sulle magliette di decine di milioni di ragazzi del pianeta?
«So chi era. È un mito. Come Evita. Ma apparteneva a un’altra epoca. Quelli della mia generazione non lo hanno vissuto come un simbolo…».
Il tango, almeno! Lo sa ballare, il tango?
«No».
Non è possibile!
«Vale quello che dicevo per Che Guevara. È di un’altra epoca, rispetto alla mia generazione. Se siamo lì e danno il tango alla radio cambiamo canale. Ma se un argentino sente il tango qui in Europa gli viene la pelle d’oca».
Mai andato a vederlo ballare in piazza la mattina della domenica a Sant’Elmo?
«Non ho mai vissuto a Buenos Aires. Praticamente non la conosco. Ci vado solo di passaggio, due o tre giorni e riparto».
Non hanno mai cercato di averla, lì?
«Una volta feci un provino al River. Ma non mi vollero».
Era troppo scarso?
«Ero troppo piccolo. Il mio cartellino era di un’altra squadra e non hanno voluto impelagarsi in una trattativa».
Lei era un “lebbroso”, giusto?
«Sì, giusto. Quelli del Newell’s sono chiamati così perché un secolo fa vennero invitati a una partita di beneficenza per i malati di lebbra. E accettarono. Quelli del Rosario rifiutarono. Da allora sono “canaglie”».
Che rapporto ha oggi con la sua città natale?
«È la mia casa, Rosario. La mia casa».
Tornerà lì, dopo?
«L’idea è quella. Anche se sono successe tante cose… Per esempio l’arrivo di mio figlio. Vedremo…».
Cosa le manca di più dell’Argentina?
«Non mi manca niente… Sono venuto qui in Spagna da piccolino, la famiglia è venuta con me, loro continuano a venire e tornare, qui ho tutto quello che mi serve. Più che altro vorrei tornare nel barrio dove sono nato».
Nel barrio La Bajada?
«Sì».
Pare sia diventato un quartiere violento: il fotografo e l’inviato di Sportweek che erano andati a vedere la sua vecchia casa sono stati perfino rapinati…
«In Argentina la situazione è complicata da tante parti. Il mio barrio a suo tempo era umile ma non pericoloso. Un quartiere modesto. Questo sì. Ma non pericoloso. Del resto, mio papà e mia mamma vivono ancora là…».
Suo padre Jorge cosa faceva?
«Era operaio in una impresa siderurgica, la Acindar. Mia madre Celia faceva la casalinga».
Dicono che il vero fenomeno di casa, perfino più bravo di lei, fosse suo fratello maggiore, Rodrigo. Quello che poi ha studiato per diventare cuoco…
«Sì, era bravissimo. Purtroppo ha avuto un incidente stradale, si è rotto la tibia e il perone e allora se ti capitava questo avevi finito la carriera».
Ha cominciato con lui a giocare a calcio?
«Sì, nello stesso club».
Con Salvador Ricardo Aparicio, l’allenatore dei ragazzini della squadra del Grandoli, secco secco come un chiodo.
«Esatto».
Quanti anni aveva?
«Cinque, credo».
Lui ha raccontato che quel giorno si era ritrovato con un ragazzino in meno per fare le squadre, che l’aveva vista palleggiare da una parte e allora era andato da sua mamma dicendole: «Me lo presti?» e lei gli aveva risposto: «Per cosa? Per giocare? Ma se quasi non sa ancora correre…».
«No, Aparicio fa confusione. Quel giorno c’era mia nonna. Siccome per la partitella gliene mancava uno (questo è vero) fu lei a dire ad Aparicio: “Metti lui, metti lui”. Ma Aparicio disse: “È troppo piccolo, gli possono fare male”. Ma mia nonna insisteva: “Mettilo! Mettilo!”. Finché quello accettò e mi fece giocare».
Lui ha ricordato a Sportweek: «Cominciò a dribblare come se avesse giocato tutta la vita! Non lo tolsi più».
«Non mi ricordo».
Ma come! La prima partita è come il primo amore…
«Ero troppo piccolo. La nonna mi ha raccontato che feci due o tre goal…».
Come si chiamava la nonna?
«Celia. La madre di mia madre».
Sua nonna capiva di calcio?
«Non lo so, però era lei che ci portava a giocare».
Come mai ha questo rapporto così forte con la nonna?
«Perché stava molto con noi, viveva per noi nipotini. Morì quando avevo dieci o undici anni. Per me fu un colpo durissimo».
Per questo quando segna alza lo sguardo e le dita al cielo dedicandole il goal?
«Sì. È stata molto importante, per me».
Com’era la sua casa?
«Piccola. Una cucina, un soggiorno, due camere. Nella prima dormivano mio papà e mia mamma, nell’altra io e tutti i fratelli».
E suo padre e sua madre stanno ancora là?
«Sì».
Come mai? Lei è molto ricco...
«Adesso hanno anche un’altra casa a una quindicina di chilometri. Ma vanno e vengono tra l’una e l’altra. Mia mamma non ha mai voluto lasciare il barrio. Vuole stare lì. Tutta la sua vita è li. Anche mia sorella, che ha vent’anni e non è sposata, vive lì...».
Cosa si mangiava a casa?
«Di tutto. Cucina argentina e italiana. Spaghetti, ravioli, bife de chorizo… E la domenica tutti a casa della nonna, coi cugini. La mia passione è la “milanesa”. Mia mamma la sa fare come nessun altro. Eccezionale. Normale o con la salsa, i pomodori e il formaggio. La nostra era una famiglia modesta, ma non povera. Sinceramente, non ci è mai mancato nulla».
Finché non le si è fermata la crescita e ha avuto bisogno di cure ormonali molto costose…
«Il trattamento era molto caro. Molto. Si trattava di 1.500 dollari al mese…».
Per questo fu costretto a venire via?
«Sì».
Eppure Luca Caioli, nel libro Messi, scrive che i medici che l’avevano in cura negano assolutamente che la famiglia abbia accettato l’offerta del Barcellona perché il club si incaricava delle spese «in quanto il servizio sanitario argentino garantiva la copertura».
«No. Pagavano un po’ la mutua di mio papà e un po’ direttamente lui, mio padre. Però tirar fuori tutti quei soldi era ogni giorno più difficile. Si rivolse anche al club con il quale giocavo, loro dissero che si sarebbero fatti carico del trattamento ma non diedero mai niente. Per quello mio padre si trasferì a lavorare in Spagna. Per poter pagare le mie cure».
Tanto più che l’Argentina era in piena crisi…
«Sì, anche per quello. Ce la cavavamo anche lì, ma qui avrebbe potuto guadagnare di più. Avevamo dei parenti a Llerida. Venne a Barcellona da solo. Dopo qualche tempo arrivò l’opportunità per me di fare un provino per il Barça. Mi mandarono a vedere in Argentina, poi mi portarono qui. Rimasi due settimane. Poi tornai in Argentina per rientrare in Spagna definitivamente un mese e mezzo dopo».
Gira voce che fece anche un provino a Como…
«No, leggende…».
Tornando al suo primo contratto sul tovagliolo. Come mai non l’avete conservato? In fondo è come il primo cent di Paperon de’ Paperoni...
«Era solo una carta per tranquillizzare mio papà. Gliel’ho detto, non so che fine abbia fatto».
Quanto era il primo ingaggio?
«C’erano ancora le pesetas. Più o meno duemila euro».
Quindi a tredici anni guadagnava più di suo padre.
«No, a me non pagavano niente: diedero un lavoro a mio padre».
Assunsero suo padre per avere lei?
«Sì. Perché tutta la famiglia potesse stare qua».
E misero lei a La Masia, il collegio del Barça… Fin dove è arrivato, con la scuola?
«Ho fatto le elementari e il primo anno delle medie a Rosario, gli altri qua. Mi mancano gli ultimi due delle superiori che mi servirebbero per andare all’università. Ma non sono più riuscito a fare le due cose insieme».
Pensa di recuperare?
«Difficile. Ho troppi impegni».
Il primo contratto “suo” quando lo ha firmato?
«A 17 anni, al ritorno dal mondiale under 20».
Guardi questa tabella: dice che quando arrivò in Spagna, a 13 anni, era alto 1,43 e pesava 35 chili… Adesso è 1,69 e pesa 69. Praticamente sul peso è raddoppiato. Colpa delle “milanesas” di sua mamma?
«Fino a poco fa non ho mai avuto questi problemi. Ho cominciato a stare attento alla dieta solo adesso…».
Era doloroso, il trattamento ormonale?
«Una puntura al giorno».
Ho letto cose diverse: il suo amico Lucas sostiene che quando era a casa sua a un certo punto si alzava, prendeva la dose nel frigo, se la iniettava e tornava a fare quel che stava facendo come fosse la cosa più normale del mondo, senza traumi.
«Era solo una puntura…».
Altri hanno scritto che quelle cure «spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l’anima. I peli in faccia che non ti crescono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare»…
«Ma no… Nessun dolore particolare».
L’ha scritto Roberto Saviano…
«Chi?».
L’autore di Gomorra, il libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
«Non lo conosco».
È vero che in tutta la sua vita ha letto solo un libro, sulla vita di Maradona?
«Sì. Vorrei leggere di più e un giorno lo farò. Ma oggi sono travolto da troppe cose».
Almeno Osvaldo Soriano lo conoscerà!
«Soriano chi?».
Ma come: i racconti più belli sull’epopea del calcio argentino li ha scritti lui! Il figlio di Butch Cassidy che in Patagonia arbitrava le partite con la pistola invece che col fischietto e il portiere indio Gato Diaz che parò un rigore lungo una settimana e i difensori «lenti come somari e pesanti come armadi» che «marcavano a uomo e gridavano come maiali»…
«Mi dispiace… Lo dovrò leggere».
Soriano sarebbe impazzito per un personaggio come “el Millionario”…
«Chi?».
Daniel Rojo, quello che alla rivista francese So foot ha raccontato che da giovane ogni settimana si faceva seimila euro di droga e rapinava sei banche…
«Ma se quasi non lo conosco…».
Lui dice che era la sua guardia del corpo e che passavate le serate con lui che le raccontava delle sue cinquecento rapine che gli avevano fatto guadagnare il soprannome, appunto, di “el Millionario”…
«Ma quello non mi ha mai fatto da servizio di sicurezza! Si è inventato tutto. L’ho incrociato una volta sola, quando faceva la guardia del corpo di Andrés Calamaro, il cantante argentino. Più visto da allora. Giuro».
Almeno sui record è d’accordo? Per cominciare, ha fatto più gol di tutti in un anno solare: 91, con 22 doppiette, 9 triplette, 2 poker e una cinquina.
«Giusto». (Ride)
Poi è stato l’unico a farne cinque in una partita di Champions.
«Giusto».
Poi detiene il record di gol in partite consecutive…
«Diciannove».
Scusi: perché ha dato buca nella ventesima?
«Mi ero infortunato. Quando sono tornato alla successiva, però, ne ho fatti quattro in un’ora…».
Poi ha fatto un famosissimo “gol coast to coast” contro il Getafe: 12 secondi dalla sua metà campo per arrivare in porta scartando 5 giocatori.
«Esatto».
Però Maradona, per fare il suo con l’Inghilterra, ci mise due secondi di meno...
«È vero. Fu più rapido».
Che rapporto ha con Maradona?
«Molto bello».
Cosa vorrebbe avere di lui?
«Per me è stato il più grande, quindi tutto».
Esempio: la cattiveria agonistica?
«Veramente, mi vado bene così».
E di Pelé cosa vorrebbe avere?
«Pelé l’ho visto molto poco. Non saprei dirle...».
Di Omar Sivori?
«Praticamente non lo conosco».
Lei è chiamato “la Pulce”: sa che Maradona era più basso di 4 centimetri e Sivori addirittura di sei?
«Il calcio è cambiato molto».
Ma non conoscere Pelé e Sivori! Li avrà ben visti in qualche vecchio filmato…
«Non guardo mai il calcio in televisione».
Mai?
«Quasi mai. In famiglia guardiamo altre cose. E poi Antonella si annoia».
Non le interessa il calcio?
«Per niente. Non ne parliamo mai. Magari torno a casa e le dico: ho fatto due goal, ho fatto una tripletta… Ma lei non mi presta attenzione. Non le interessa».
È una fortuna: l’aiuta a tenere i piedi per terra.
«Lo so. Per questo l’ho scelta come moglie».
Ma lei li sa cambiare i pannolini al pupo?
«Certo. Gli cambio i pannolini, gli faccio il bagnetto e tutto il resto…».
Una vecchia battuta dice che i politici sono come i pannolini: necessari, ma vanno cambiati spesso.
«Non mi intendo di politica».
E non ne parla mai.
«No».
Tornando ai record: è l’unico ad avere vinto quattro Palloni d’Oro, l’unico a presentarsi con uno stupefacente smoking a pois...
«Un’idea dei miei amici Dolce e Gabbana».
Anche il papillon era a pois.
«Era intonato, no?».
Come le è venuta l’idea di questo libro di foto con Domenico Dolce?
«Così… Chiacchierandone un giorno… Il ricavato va in beneficenza».
I suoi tifosi diranno: ma guarda cosa ha fatto Leo! Ci si riconosce, in quelle foto?
«Sì. Sono proprio belle. Non pensavo che Domenico fosse così bravo».
Dopo La maja desnuda di Goya, il “Messi desnudo” di Dolce, sia pure castamente…
«L’obiettivo era quello di mostrare un’altra parte di me. Apparire in un modo differente. La gente è abituata a vedermi con la maglia del Barcellona, volevo mostrarmi diverso...».
Una fuga liberatoria dal personaggio pubblico?
«Insomma, sarebbe stato più facile farlo con la maglietta del Barça...».
Vuol dire che essere osannato da miliardi di tifosi è anche una schiavitù?
«Certo, spesso mi piacerebbe camminare nella strada senza che nessuno mi riconoscesse».
La celebrità può pesare?
«Sì».
Ringo Starr spiegò che si era accorto di essere diventato famoso il giorno in cui sua mamma aveva cominciato a guardarlo in maniera diversa…
«Io no. Per mio papà e mia mamma sono sempre lo stesso. Mi trattano sempre allo stesso modo».
Cioè?
«Come un bambino».
Tornando ai record, lei ha un primato anche negativo: il giorno dell’esordio con la nazionale argentina è riuscito a farsi espellere dopo 40 secondi!
«Fu colpa dell’arbitro. Davvero. Non avevo fatto niente. Ero partito in dribbling, il difensore mi aveva preso per la maglia, io avevo solo cercato di divincolarmi… È su YouTube. Può controllare. Uscii in lacrime…».
Piange spesso?
«Poco».
Vasco Rossi dice che i veri uomini non ballano, ma sanno piangere.
«Ho pianto quando è nato mio figlio Thiago. È stato un parto difficile. Molto. A un certo punto i dottori hanno iniziato ad andare avanti e indietro e io non capivo cosa stesse succedendo…».
Lei era lì?
«Sì. Ho assistito. Momenti lunghissimi. Difficili da dimenticare. È andato tutto bene, grazie a Dio».
Lei ci crede, in Dio?
«Sì. Anche se devo ammettere che non sono praticante».
Insomma, Messi non va a messa…
«No. Raramente».
Quando guarda certi film, la lacrimuccia la fa?
«Sì. Anche se in genere preferisco i film da ridere. Con Antonella ci guardiamo i thriller».
Film d’azione?
«No, non mi piacciono».
I suoi attori preferiti?
«L’argentino Ricardo Darin. Ma mi piacciono anche Robert De Niro, Al Pacino, Will Smith...».
E attrici?
«Attrici… Al momento non me ne viene in mente una… Non è che guardo molti film».
Se non guarda il calcio e non guarda i film cosa le piace vedere?
«I cartoni animati con Thiago».
Ma se ha sette mesi: non può capire niente!
«Però ride...».
Tivù spagnola o argentina?
«Soprattutto argentina».
Telenovelas?
«No. Mi piacciono le trasmissioni dove parlano della vita degli altri».
Le piace meno il gossip sulla vita sua…
(Ride)
E la musica?
«Ascolto di tutto. Musica argentina. Americana...».
Italiani?
«Eros Ramazzotti. Ho iniziato ad ascoltare musica con lui. Ma mi piacciono anche Ligabue, Laura Pausini…».
Lei ha vinto tutto: cinque “scudetti” nel campionato spagnolo, due Coppe di Spagna, cinque Super Coppe di Spagna, tre Champions League, due Supercoppe Europee, due Mondiali per Club, un Mondiale Under 20… Ha un solo buco…
«I mondiali con l’Argentina».
È un dolore?
«Sì».
Dovendo scegliere fra il quinto Pallone d’Oro e la vittoria ai mondiali in Brasile?
«Non ho dubbi: i mondiali con l’Argentina».
Perché non riesce a dare il massimo, in nazionale?
«Non lo so. C’è sempre qualcosa…».
Forse si aspettano troppo da lei? Troppe pressioni?
«Può darsi… Certo non dipende solo da me. A calcio si gioca in tanti. Speriamo vada meglio in Brasile. L’Argentina ha un gruppo con personalità molto forti».
Conosce Nereo Rocco?
«Mai sentito».
Era uno straordinario allenatore, diceva che la squadra perfetta deve avere «un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un “mona” che segna e sette asini che corrono»…
«Non credo che nel Barcellona ci siano sette asini… E neanche nell’Argentina».
Mi spiega la storia del piede d’oro?
«È stata un’idea di un grande gioielliere di Tokyo. Sono venuti a trovarmi, hanno preso l’impronta del mio piede sinistro, ne hanno fatto una copia in oro massiccio e l’hanno venduta per beneficenza per quattro milioni».
L’originale vale di più. È vero che gli oligarchi russi dell’Anži, la squadra dov’è finito Samuel Eto’o, le ha offerto un contratto da 120 milioni per quattro anni?
«Non ne ho mai saputo niente».
Avrebbero offerto 400 milioni al Barcellona…
«E il Barcellona non avrebbe accettato? Ma dai…».
Che valore hanno, per lei, i soldi?
«Credo che per vivere siano importanti. Ma i valori che contano sono altri».
Com’è la sua villa a Castelldefels: otto piscine, cinema privato, scalinate, parco secolare e talassoterapia?
«Ma no, è una bella casa dove stiamo comodi ma niente di hollywoodiano. Non sono il tipo».
Qualche vizio se lo toglie?
«No. Non sono il tipo che vuole oggetti da esibire».
Una Ferrari testarossa a pois?
«Non mi interessa. Non sono un tipo da capricci. Preferisco spendere i soldi in cose che hanno senso».
Come la beneficenza?
«Abbiamo messo su una fondazione. Costruendo a Rosario, per esempio, un ospedale per i bambini. Ci portiamo i dottori perché seguano dei corsi e siano all’altezza di affrontare problemi come la leucemia infantile. O il Mal del Chagas, un morbo diffuso in Argentina che viene trasmesso da una zanzara».
Spesso dietro la decisione di impegnarsi su questi temi c’è un dolore personale: è così anche per lei?
«Ho sempre amato i bambini. Sono legato all’Unicef. Sono andato anche ad Haiti, dopo il terremoto, per l’Unicef. Uno shock. Per questo è nata la fondazione. Volevo restituire agli altri un po’ della fortuna che è toccata a me».
Gian Antonio Stella