Marcello Parilli, Corriere della Sera 21/06/2013, 21 giugno 2013
L’ITALIA CHE CI CREDEVA
Quella che arriva da Asti ha tutta l’aria di voler essere una provocazione, una scossa violenta, una ferita all’orgoglio di chi abita questo travagliato Paese e, da domani al 3 novembre, andrà a visitare la mostra «La Rinascita. Storie dell’Italia che ce l’ha fatta». In tre storici palazzi di corso Alfieri (Mazzetti, Alfieri e Ottolenghi), nell’arco di duecento metri, viene infatti concentrato tutto ciò che siamo stati e siamo stati capaci di fare dal 1945 al 1970, 25 anni durante i quali un’Italia distrutta dalle bombe e minata dalla guerra civile ha trovato forza, risorse e talento per rialzare la testa e trasformarsi in un Paese moderno. Quasi a dire: signori, è opera nostra e dei nostri padri. L’abbiamo fatto una volta, possiamo farlo ancora. Vediamo di darci una mossa.
Mastro tessitore dell’iniziativa è Davide Rampello, ex presidente della Triennale di Milano, curatore del Padiglione Italiano all’Expo di Shanghai e attualmente curatore del Padiglione Zero e delle attività culturali e artistiche di Expo Milano 2015. Che precisa: «Prima di tutto questa è una mostra fortemente voluta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, ma anche da tutta la città: all’assemblea programmatica c’erano sindaco, vescovo, provveditore agli studi, prefettura, assessori, attentissimi per due ore filate. E chi ha collaborato ha accettato compensi molto contenuti, perché ha sentito il piacere di fare una cosa importante, non solo per la città».
A Palazzo Mazzetti, cuore dell’esposizione, il percorso è articolato in quinquenni, dove si mescolano volutamente l’alto e il basso, i vestiti del talentuoso Roberto Capucci, i giocattoli e le macchine da ufficio, le confezioni di cibo e i quadri d’autore, Carmelo Bene e Wanda Osiris, le Vespe, le copertine dei rotocalchi con gli utensili di plastica. Non dev’essere uno scandalo scoprire il simpatico ippopotamo Pippo della Lines condividere lo spazio con un’opera di Burri. E i pannelli sinottici con i dati dell’Istat ci aiutano a mettere i pezzi al posto giusto. «Abbiamo analizzato e sviluppato questo periodo con un linguaggio diverso, mettendo le cose assieme, incrociandole, creando contrasti anche forti, cercando di rammendare la memoria soprattutto con oggetti di uso quotidiano, perché la gente non sa o fa fatica ad accostare cose che in realtà sono accadute contemporaneamente — dice Rampello —. Nel ’61 Claudio Villa vince Sanremo e Celentano il Cantagiro, ma sembrano epoche diverse, mondi distanti. Era un’epoca in cui il design italiano, tra artigianato e serialità industriale, faceva scuola, in cui la pubblicità aveva ancora un afflato "artistico". Mentre l’alta moda italiana sfilava nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, mentre trionfava la tv nei cinema e nei caffè, al sud i ragazzi andavano ancora a scuola scalzi nelle stalle. Questi accostamenti ci aiutano a evocare paesaggi della memoria, a farci uscire dal torpore di questi anni affollati di valori banali e anche volgari, a ricordare che a un certo punto, nonostante tutto, ce l’abbiamo fatta, siamo rinati».
La mostra è punteggiata dalle foto del Touring Club Italiano che ci riproiettano in un passato rivelatore: «Siamo stati venticinque giorni negli archivi del Touring, che contengono 400 mila fotografie. Quello che mi ha colpito è il confronto con l’oggi: penso alle discoteche dove si va per sballare e non si riesce nemmeno a parlarsi. E poi vedo le foto di quelle vecchie balere di periferia, piene di facce sorridenti».
La seconda tappa è a Palazzo Ottolenghi, tutta dedicata a celebrare la rinascita di Asti, con le parole di Paolo Conte a far da fil rouge e gli ambienti ricostruiti che evocano l’epoca del coprifuoco, dei primi complessini jazz, delle avanguardie artistiche cittadine, fino al boom economico.
Un percorso che si conclude a Palazzo Alfieri, finalmente restituito alla città, dove, accanto ai pregevoli arazzi della manifattura Scassa, trionfa il vero collante di quegli anni, i media: il grande cinema, gli incipit dei romanzi più significativi, stampati sui muri e letti da un attore, le copertine delle riviste e le prime pagine storiche del Corriere della Sera, una sala affollata di video con spezzoni dei programmi tv e degli spot che fecero epoca, e infine la radio. «In tutto questo c’era una qualità media notevole, che andrebbe recuperata — conclude Rampello —. Ebbi modo di lavorare con gente come Amurri e Verde o Terzoli e Vaime. Vivevano di spettacolo leggero, d’accordo, ma in realtà erano coltissimi».
Marcello Parilli