Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 21/06/2013, 21 giugno 2013
LA GUERRA DEL NILO FRA EGITTO E ETIOPIA. UNA DIGA MINACCIA IL «MARE DEI FARAONI»
Era il 31 marzo 2011 quando Pietro Salini, amministratore delegato del gruppo di famiglia specializzato in grandi opere, annunciava trionfante «la firma del più rilevante contratto mai siglato da un’impresa italiana all’estero, del valore di 3,35 miliardi di euro, per la costruzione della più grande diga del continente africano, sul Nilo Azzurro in Etiopia». La data non è secondaria: in Egitto Mubarak era caduto da meno di due mesi, il Paese euforico o sotto choc, i generali reggenti di fatto e l’era Morsi di là da venire. Quell’annuncio e l’inizio dei lavori erano passati, comprensibilmente, in secondo piano. E altrettanto comprensibilmente, viste le enormi difficoltà che il raìs del Cairo sta incontrando adesso a ogni livello, e visto che la Diga del Grande Rinascimento è già compiuta per il 21%, sono ora di primaria importanza per Mohammad Morsi e i Fratelli Musulmani al potere in Egitto da un anno, per l’intera regione.
«Se il nostro Paese è il dono del Nilo allora il Nilo è un dono per il nostro Paese», ha tuonato il successore di Mubarak giorni fa, citando le parole di Erodoto. «Se la sua acqua calerà di una goccia, l’alternativa sarà il nostro sangue», ha aggiunto dicendosi pronto a «ogni opzione per impedirlo». Affermazioni che hanno dato il via a mille dibattiti e analisi sull’ipotesi di una «guerra del Nilo» tra il Cairo e Addis Abeba (ritenuta improbabile se non impossibile da tutti), insieme a una complessa e difficile maratona diplomatica, con molte chiusure reciproche. E poco importa che le aggressive frasi di Morsi non abbiano raggiunto l’obiettivo sperato di deviare le proteste contro il suo governo verso il nemico esterno: il Nilo, che per gli egiziani è ben più di un fiume tanto da chiamarlo bahr (mare), non è solo un simbolo d’identità nazionale. E’ la fonte del 97% delle risorse idriche di un Paese con oltre 80 milioni di abitanti, già travolto da una spaventosa crisi economica. Un calo sensibile di quelle risorse sarebbe davvero drammatico.
Sembra però che Morsi non possa fare molto: il trattato che concedeva all’Egitto «i diritti storici e naturali» sul grande fiume risale al 1929, firmato dal Cairo con i colonialisti britannici. Quello del 1959 con il Sudan, in cui si arrivava a un’intesa sempre molto favorevole all’Egitto all’epoca della diga di Assuan, è solo bilaterale. Altri otto Paesi, a cui si è poi aggiunto il Sud Sudan, fanno parte del bacino del Nilo, tutti a monte del colosso egiziano. Nazioni finora poco sviluppate e politicamente deboli che adesso, con la crisi degli Stati arabi del Nord e l’emergere di quelli più a Sud, alzano la voce. Nazioni che per altro da 14 anni stanno negoziando, insieme alla Banca Mondiale, un Accordo quadro sulle acque del fiume più lungo del pianeta.
Il concetto base e condiviso è quello espresso dal primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn: «Gli egiziani vogliono essere i soli padroni del Nilo ed è assurdo. Dobbiamo lavorare insieme per trovare una soluzione, l’acqua può bastare a tutti». In Etiopia, ha poi aggiunto, «sgorga l’86% dell’acqua del Nilo e fare quella diga è nostro diritto. Non rompiamo alcun trattato perché noi non ne abbiamo mai firmati, finora ci hanno sempre escluso». Parole che sottolineano i decenni di chiusura e disinteresse da parte dell’Egitto, accentuatisi sotto Mubarak, verso gli Stati africani che adesso presentano il conto. Non a caso tra i più espliciti sostenitori di Addis Abeba è ora il Sud Sudan, la cui nascita nel 2011 fu osteggiata soprattutto dall’ex raìs egiziano. «L’Etiopia ha tutti i diritti di usare le acque del Nilo per l’energia e l’irrigazione», ha detto il governo di Juba, che proprio ieri ha firmato l’Accordo quadro già siglato da Etiopia, Ruanda, Tanzania, Uganda, Kenia e Burundi. Un blocco compatto e ormai potente contro cui il debole Egitto non potrà certo lanciare guerre né trovare solidarietà internazionale: e il suo ministro degli Esteri, infatti, ha finalmente accettato di incontrarsi con il collega etiope per «trovare una soluzione». Dopo un primo contatto, i due si sono aggiornati tra qualche settimana. Nel frattempo dibattiti, analisi, minacce e tentativi più o meno pubblici di mediazione andranno avanti. Ma i tempi sono cambiati, e il Cairo alla fine qualcosa dovrà per forza cedere.
Cecilia Zecchinelli